Da Cartesio a Fichte
La confusione fra l’io umano e l’io divino
Parte Prima (1/4)
Chi si esalta sarà umiliato
e chi si abbassa sarà innalzato
Lc 14,1
Il bisogno di verità
Per spiegare il sorgere e le ragioni del pensiero cartesiano, è bene ricordare che Cartesio vive in un clima culturale e spirituale, quale quello dell’Europa influenzata dalle idee del Rinascimento e del luteranesimo, che avevano esaltato l’autoaffermazione dell’individuo con la sua coscienza soggettiva. Si trattava di una ripresa dell’interiorismo agostiniano, ma in chiave immanentistica e soggettivistica: il Dio-in-me che evolve nel Dio-per-me o secondo-me.
Le terribili guerre fra cristiani della fine del ‘500 avevano creato in molti la sfiducia nella possibilità di certezze filosofiche e religiose oggettive e salde, basate sull’esperienza sensibile e sulla conoscenza di fede. Forte era la tentazione di rifugiarsi nel fideismo, che si traduceva in fanatismo, nella violenza e nell’intolleranza, oppure alla rinuncia all’uso della ragione in materia religiosa accontentandosi di un’adesione di convenienza a una qualunque Chiesa, quale che fosse, pur di godere di tranquillità e benessere.
C’è da far presente inoltre, contro un diffuso secolare pregiudizio cartesiano, fatto ormai proprio dagli stessi storici della filosofia e oggi dai modernisti, che il cartesianismo non fonda nessuna «filosofia moderna», quasi che essa costituisse un progresso o una riforma della precedente filosofia cattolica, come vorrebbero farci credere i suoi sostenitori per rendere autorevole il loro maestro.
Infatti la Chiesa non ha accolto la filosofia cartesiana, ma mise all’Indice le opere di Cartesio nel 1663 e nel 1720. La Chiesa non era aperta alla novità? Lei che predica la novità dello Spirito Santo, l’uomo nuovo, la nuova legge, la nuova creatura, i nuovi cieli e la nuova terra non è aperta al nuovo? Sono calunnie.
Essa invece ha continuato e continua fino ai nostri giorni a raccomandare San Tommaso, col quale Cartesio si mise in contrasto. Ora la Chiesa non è un’accademia filosofica. Se raccomanda una filosofia e ne respinge un’altra non lo fa in nome della filosofia, ma lo fa in nome della divina rivelazione, che essa è chiamata da Cristo a custodire. La Chiesa lascia piena libertà al filosofo cattolico di scegliere la corrente o l’opinione filosofica preferita. Ciò che chiede al cattolico per il bene della sua anima e di quelle che lo seguono è solo di non abbracciare una filosofia che sia in contrasto con la sua fede.
Se dunque la Chiesa ha disapprovato la filosofia di Cartesio, ciò vuol dire allora che la filosofia di Cartesio è una cattiva filosofia perché mette in pericolo la fede. Nessun Dottore della Chiesa è cartesiano, mentre gran parte degli errori moderni condannati dalla Chiesa possono collegarsi al cartesianismo.
Ciò non vuol dire che non sia doveroso recuperare in Cartesio il positivo o che non sia doveroso conoscere il pensiero di Cartesio e dei suoi epigoni. Questo infatti è il compito che il Concilio Vaticano II assegna ai filosofi cattolici per poter dialogare con i filosofi di oggi, apprezzare i loro valori e confutare i loro errori.
Ma ciò va fatto alla luce di San Tommaso. Il guaio è che invece oggi è risorto quel modernismo che fa il lavoro opposto, e cioè giudica Tommaso con criteri cartesiani o fa passare Tommaso per un cartesiano. E ciò non può essere evidentemente il compito del filosofo cattolico.
Chi conosce bene Cartesio senza paraocchi sa bene che in realtà egli non fa altro che riallacciarsi senza dircelo all’antica tradizione sofistica protagorea già a suo tempo confutata da Aristotele. Non è Cartesio che confuta Aristotele, ma è Aristotele che confuta Cartesio.
Secondo Cartesio infatti ai suoi tempi in filosofia non si trovava ancora «cosa alcuna sulla quale non si disputasse e per conseguenza non fosse dubbia»[1]. Egli così afferma:
«Bisognava prendere seriamente una volta in vita mia a disfarmi di tutte le opinioni ricevute fino allora in mia credenza, per cominciare tutto di nuovo dalle fondamenta, se volevo stabilire qualche cosa di fermo e di durevole nelle scienze»[2].
Cartesio pare non essersi accorto che la filosofia era già stata fondata da Aristotele e che in ogni caso ogni mente umana possiede delle certezze fondamentali ed originarie tratte dal senso e dalla ragione, assolutamente indiscutibili. Il suo proposito di rifondare il sapere e la filosofia è insensato.
Osa infatti dichiarare di «ritenere pressoché falso tutto ciò che era soltanto verosimile»[3]. Che cosa dunque aveva imparato nel collegio dei Gesuiti? Nulla! E quindi Cartesio mente quando afferma di avere colà imparato tutto ciò che gli altri avevano imparato.
Quello che ci domandiamo con un senso di sconcerto è quale può essere il motivo per il quale Cartesio giudica in modo così palesemente irriguardoso quanto gli era stato insegnato a La Flèche. Non è assolutamente credibile che gli si avessero insegnato solo dubbie opinioni. Qui Cartesio si mostra estremamente ingrato e offensivo verso i suoi docenti.
Dobbiamo invece supporre, data la rigorosa vigilanza della Chiesa di allora, dopo la riforma tridentina, che la filosofia e teologia insegnate fossero quelle tomistiche, tutt’al più secondo la corrente suareziana. Che cosa successe nello spirito di Cartesio per uscire con simile stato d’animo? Come mai questo suo stato di dubbio ed incertezza generalizzati? Sono cose, queste, che deve prendere in considerazione il filosofo o non forse meglio lo psicologo? Che cosa ha giocato nel fondo del suo animo per arrivare a pronunciare queste parole?
Come Cartesio soddisfa il suo bisogno di verità
L’istanza critica è giusta e doverosa, purchè parta dalla semplice constatazione della verità. In questo senso Cristo ci ordina di essere semplici come le colombe e prudenti come i serpenti.
Ascoltiamo adesso Cartesio:
«Riguardo a tutte le opinioni che avevo fino allora accolto nel mio spirito, non potevo far di meglio che intraprendere, una buona volta, di toglierle via per rimettervene in seguito delle altre migliori»[4]. È consapevole del fatto che i princìpi delle scienze devono essere attinti alla filosofia; ma poi afferma di «non aver ancora trovato princìpi certi, per cui ho pensato che bisognava, prima di tutto che io cercassi di stabilirvene»[5].
Noi però ci chiediamo: la ragione umana e la filosofia dovevano aspettare Cartesio per basarsi su princìpi sicuri o non sarà piuttosto Cartesio, il quale con una presunzione inaudita e insensata, pretende di aver trovato lui la verità, in tutta l’umanità dall’inizio della storia?
La cosa che stupisce enormemente è poi come ha fatto un esaltato e un impostore del genere a trovar credito presso tanti fino ai nostri giorni. Gli uomini, gli scienziati, i filosofi del passato, i profeti, i teologi, i santi, Gesù Cristo, prima che apparisse l’astro di Cartesio, sono vissuti tra le ombre e le apparenze, nell’incertezza delle opinioni e si sono pasciuti di illusioni?
Ma Cartesio non teme di arrivare alla conclusione:
«Non potevo scegliere nessuno, le cui opinioni mi sembrassero dover essere preferibili a quelle di altri e mi trovavo come costretto a cercare di guidarmi da me stesso»[6].
Qui evidentemente Cartesio si erige al solo uomo in tutta l’umanità che l’ha preceduto, ad aver finalmente scoperto la verità, mentre tutti gli altri vagano nelle opinioni, nell’incertezza, nelle apparenze e nelle illusioni. Dunque o la verità ha origine dal suo cogito o l’umanità è perduta. Neppure Gesù Cristo, Che aveva tutto il diritto di considerarSi la Verità fatta persona, giudicava gli uomini incapaci di cogliere il vero mediante la loro ragione.
I meriti di Cartesio
Osserviamo però che Aristotele, come tutti sanno, è il fondatore della metafisica, come scienza dell’ente in quanto ente (on e on), scienza che egli ha stabilito una volta per tutte su basi e princìpi sicuri e definitivi, senza che pertanto vi sia alcuna possibilità, bisogno o ragione di essere rifondata, come sostengono i cartesiani.
L’impresa cartesiana fallisce ed è illusoria, perché suppone che Aristotele si sia sbagliato nel fondare la metafisica. Cartesio crede di trovare una metafisica più sicura e meglio fondata, ma in realtà non fa altro che partire da quel protagorismo che Aristotele aveva già confutato. Cartesio non ammoderna la filosofia, ma la fa retrocedere a quella sofistica che Aristotele aveva già confutato.
D’altra parte Aristotele, con la sua opera di fondazione non ha scoperto o inventato niente, ma semplicemente ha messo per iscritto quelle nozioni basilari, fondamentali, originarie ed universali del sapere che appartengono alla mente umana come tale.
Bisogna altresì dare atto a Cartesio di esser stato particolarmente sensibile ai grandi valori dello spirito: quello della verità, della realtà, della certezza, del sapere, della logica, dell’autocoscienza, dell’essere, dei sensi, delle passioni, della ragione, dell’intelletto, della volontà, della libertà, dell’esistenza di Dio. Il problema è che egli, infetto dall’individualismo e soggettivismo rinascimentale luterano, ha voluto fondare il sapere basandosi sul proprio io anziché sull’oggettività della realtà sensibile ed intellegibile.
Kant vuol rifondare la metafisica
Partendo dalla riforma cartesiana
È interessante l’opera di Kant. Infatti, come è noto, egli non respinse il cogito per tornare alla metafisica di Aristotele, ma lo mantenne sotto il nome di ciò che egli chiama «appercezione trascendentale»[7]. E tuttavia si accorse che Cartesio sbagliò nella pretesa di dimostrare l’esistenza delle cose esterne sensibili. Come è noto, Kant non ha alcun dubbio circa l’esistenza della cosa in sé. Così Kant ritorna al realismo sotto questo aspetto. Riconosce che
«la ragione necessariamente e a buon diritto esige l’incondizionato nelle cose in se stesse per tutto ciò che è condizionato a fine di chiudere con esso la serie delle condizioni»[8].
Resta invece legato a Cartesio nella sua celebre «rivoluzione copernicana», in quanto conferma ed anzi peggiora l’impostazione gnoseologica cartesiana, perché, se Cartesio conserva dal realismo l’esistenza di Dio fuori dell’anima, per Kant l’esistenza di Dio diventa una semplice idea della ragione, in quanto, come scriverà nei Prolegomeni, per lui la metafisica comporta «l’applicazione della ragione soltanto a se stesa»[9].
In Kant i «concetti a priori», sostituiscono le idee innate cartesiane. Ma mentre le idee cartesiane colgono la realtà esterna, i concetti puri o forme a priori dell’intelletto danno forma all’oggetto, la cui materia è bensì tratta dall’esperienza della cosa in sé, ma queste forme a priori sono immanenti alla ragione stessa, per cui l’idealismo con Kant fa un passo avanti.
Esiste però un giudizio corrente su Kant secondo il quale egli sarebbe l’affossatore della metafisica. Le cose non stanno esattamente così. Anzi Kant vuole precisamente dare un fondamento saldo alla metafisica. La Critica della ragion pura l’ha scritta proprio a questo scopo[10], sicchè nella sua operetta Prolegomeni ad ogni futura metafisica che voglia presentarsi come scienza[11] sostiene che la metafisica può essere scienza solo come studio che la ragione deve compiere su sé stessa, come abbiamo visto sopra.
Il problema è che Kant non assume il concetto aristotelico della metafisica come sapere che partendo dall’esperienza si eleva al puro spirito, ma il concetto cartesiano come piena esplicitazione dell’autocoscienza ovvero la metafisica non come scienza dell’ente ma autocoscienza della ragione da parte di sé stessa. Si spiega allora come questa concezione prepara l’abbandono totale del realismo che si verificherà col successivo idealismo tedesco.
Nello spiegare le ragioni che lo hanno indotto a scrivere la Critica della ragion pura, Kant si lamenta del fatto che secondo lui la metafisica sarebbe
«un campo di lotte senza fine»[12], per cui ad essa «non è sinora toccata la fortuna di potersi avviare per la via sicura della scienza. … Giacchè la ragione si trova in essa continuamente in imbarazzo, anche quando vuole scoprire (come essa presume) a priori quelle leggi, che la più comune esperienza conferma. In essa si deve innumerevoli volte rifar la via, poiché si trova che quella già seguìta non conduce alla meta; e, quanto all’accordo dei suoi cultori nelle loro affermazioni, essa è così lontana dall’averlo raggiunto, che è piuttosto un campo di lotta, il quale par proprio un campo destinato ad esercitare le forze antagonistiche, in cui nemmeno un campione ha mai potuto impadronirsi della più piccola parte di territorio e fondar sulla sua vittoria un durevole possesso. Non v’è dunque alcun dubbio che il suo procedimento finora sia stato un semplice andar a tentoni e, quel che è peggio, fra semplici concetti»[13].
Queste parole di Kant mostrano quanto egli fosse ignorante della scuola tomista, che, riprendendo la fondazione aristotelica, l’ha sviluppata, perfezionata ed innalzata a un più alto livello soprattutto alla luce del realismo biblico e della concezione biblica dell’essere. E questa ignoranza si comprende in Kant, erede del disprezzo luterano della metafisica, così da non aver potuto seguire il permanere e consolidarsi della metafisica da San Tommaso fino ai suoi tempi soprattutto nella scuola domenicana.
Nel contempo Kant sembrerebbe a tutta prima ignorare la fondazione cartesiana, atteso come Cartesio fosse convinto di aver fondato lui finalmente la metafisica su basi indistruttibili. Con tutto ciò Kant resta legato a Cartesio e precisamente al suo cogito, che Kant esprime nell’«io penso» e in quella che egli chiama «appercezione trascendentale»[14].
Fichte si vanta di aver capito Kant più di quanto
Kant non avesse capito sé stesso
Fichte parte da questa concezione dell’io per rifiutare la cosa in sè kantiana, che appare come fenomeno (o cosa-per-me o in-me), cosa indipendente dal soggetto, come realtà sensibile esterna posta davanti all’io o all’intelletto, quindi come residuo del realismo ontologico come res trascendentale, proprietà dell’ente.
Come è noto, Kant protestò contro l’interpretazione fichtiana dell’io kantiano, che conduceva al rifiuto della cosa in sé, che Kant invece volle mantenere, salvo ad avvicinarsi a Fichte nell’Opus posthumum. Ma Fichte aveva in realtà compreso che il rifiuto della cosa in sé esterna al pensiero, ossia l’ente extramentale, era logicamente richiesto, come conseguenza del cogito cartesiano, che pure Kant aveva accolto.
Ma con ciò Fichte concepiva una dottrina della conoscenza ancora più lontana dal realismo, spingendola verso un più accentuato idealismo, che prepara la coincidenza hegeliana del pensiero con l’essere e quella schellinghiana del soggetto con l’oggetto e dell’ideale col reale.
Fine Prima Parte (1/4)
P. Giovanni Cavalcoli
Fontanellato, 31 agosto 2025
Certamente si rivela in Cartesio un radicale bisogno di verità. Ma nel contempo quello che è inaccettabile è la spietata volontà di spegnere tutte le luci per quanto flebili, che pur conservava nella sua coscienza e memoria. Se veramente cercava la verità, avrebbe dovuto applicare il comando del Signore di non spegnere il lucignolo fumigante. Chi nella notte vede una piccola luce si accontenta di quella e quella gli fa sperare di vedere il sole. Invece questa volontà distruttrice non conduce la ragione alla luce, ma al baratro. Padre Fabro parla giustamente di nichilismo.
La novità di Cartesio rispetto ad Aristotele sta in una migliore conoscenza di Dio, dello spirito e del funzionamento della nostra coscienza, che è il frutto di lunghi secoli di cristianesimo, valori che ovviamente sono assenti nel pagano Aristotele. Ma Cartesio in ciò non dice nulla di originale che non fosse già noto ai filosofi cattolici del suo tempo e che gli avevano insegnato al Collegio di La Flèche.
L’impresa cartesiana fallisce ed è illusoria, perché suppone che Aristotele si sia sbagliato nel fondare la metafisica. Cartesio crede di trovare una metafisica più sicura e meglio fondata, ma in realtà non fa altro che partire da quel protagorismo che Aristotele aveva già confutato. Cartesio non ammoderna la filosofia, ma la fa retrocedere a quella sofistica che Aristotele aveva già confutato.
D’altra parte Aristotele, con la sua opera di fondazione non ha scoperto o inventato niente, ma semplicemente ha messo per iscritto quelle nozioni basilari, fondamentali, originarie ed universali del sapere che appartengono alla mente umana come tale.
[1] Discorso sul metodo, Editrice La Scuola, Brescia 1957, p.19.
[2] Meditazioni metafisiche, Editori Laterza, Bari 1968, p.70.
[3] Ibid.
[4] Discorso sul metodo, Editrice La Scuola, Brescia 1957, pp.27-28.
[5] Ibid., p.41.
[6] Ibid., p.30.
[7] Critica della ragion pura, Editori Laterza, Bari 1965, p.669.
[8] Critica, op. cit., p.23.
[9] Prolegomeni ad ogni futura metafisica che si presenterà come scienza, Carabba Editore, Lanciano 1924, p.94.
[10] Ibid., pp20-24.
[11] Prolegomeni, op.cit.,pp.94,137.
[12] Critica della ragion pura, Edizioni Laterza,Bari 1965, p.5.
[13] Ibid., pp.19-20.
[14] Vedi la Critica della ragion pura alle pp.138,141,154 , 162, 668. 669. 676.
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