Il concetto di Dio in Bontadini - Seconda Parte (2/2)

 

Il concetto di Dio in Bontadini

Seconda Parte (2/2)

 

Come sorge il problema dell’esistenza di Dio?

Secondo Bontadini la questione dell’esistenza di Dio nasce dal bisogno di togliere la contraddizione che apparentemente esiste nel diveniente, ossia nell’ente fisico mobile e sensibile. Ma il fatto è che Bontadini prende in considerazione gli enti fisici alla luce del concetto parmenideo dell’essere, inteso come essere assoluto, uno, unico, necessario, eterno ed immutabile.

Per questa ragione Bontadini crede di aver trovato una prova dell’esistenza di Dio, una «via breve», come la chiama, più rigorosa delle famose cinque vie di San Tommaso. Così la espone Antonino Postorino:

«il mondo è bensì contradditorio, ma solo in quanto separato da Dio – nel qual caso la contradditorietà lo riduce ad essere quel nulla da cui è tratto – mentre cessa di essere contradditorio in quanto entra in relazione con Dio, cioè in quella relazione eterna che è lo stesso atto creativo. La prova rigorizzata dell’esistenza di Dio funziona dunque nel seguente modo: il mondo mostra di essere contradditorio e lo fa inappellabilmente sul piano fenomenologico; sul piano logico però – è il portato del principio di Parmenide – tale contraddizione deve risultare tolta e può esserlo soltanto integrando il principio di Parmenide col principio di creazione. La dimostrazione dell’esistenza di Dio viene così a coincidere con la dimostrazione del superamento necessario della contradditorietà del mondo, così che l’esistenza di Dio è necessaria tanto quanto è il superamento della contradditorietà»[1]

Osservo che se il mondo è contradditorio e il mondo è in Dio, la contraddizione entra in Dio stesso. Per dimostrare che Dio esiste non basta parlare di superamento dell’apparente contraddizione del divenire, ma occorre vedere in che modo questa operazione viene condotta. Se si crede di poterlo fare rifiutando la coppia aristotelica di atto e potenza, la contraddizione non si supera affatto ma entra in Dio stesso.

Si deve dire bensì con Bontadini che la contraddizione del divenire è solo apparente. Ma essa si toglie distinguendo atto e potenza, cosa che Bontadini, insistendo sulla contraddizione, non vuol fare. Ed inoltre egli nega l’esistenza del nulla, da cui Dio trae l’essere del mondo. Così risulta per Bontadini che la creazione non è passaggio dal non-essere all’essere, ma negazione e limitazione dell’essere divino, per cui succede che Dio nel creare nega se stesso. Ma a questo punto, ben lungi dal togliere la contraddizione, la dimostrazione dell’esistenza di Dio fa sì che la contraddizione entri nello stesso essere divino.

Bontadini, come Parmenide, è convinto che la concezione dell’essere limitato all’essere necessario sia richiesta dal principio di non-contraddizione. Ma questo avviene perché Bontadini formula questo principio in modo insufficiente, ossia così: l’essere non può non essere. Invece la formula giusta è questa: non è possibile che un dato ente sia e non sia simultaneamente e sotto il medesimo aspetto. Se invece si sostiene, come fa Parmenide, che il suddetto principio ammetta solo l’essere necessario, per forza l’ente contingente appare contradditorio e impossibile.

Ora invece la normale ragione naturale, adusa alla nozione analogica dell’essere, constatando in base all’esperienza l’esistenza del mutevole, non prova nessun disagio nell’esperienza del divenire; a lei il diveniente o il mutevole non appare affatto contradditorio, ma non ha alcuna difficoltà a riconoscerlo come ente.

Ciò che semmai in questo ente le fa sorgere una domanda è la contingenza e finitezza di questo ente. La ragione infatti si domanda: questo ente, che non esiste per sua essenza, che esiste ma potrebbe non esistere, come mai esiste? Da dove prende la sua esistenza? Da dove gli viene? Chi glie l’ha data? E la riposta non potrà che essere la scoperta di un ente donatore dell’essere, ossia un ente il cui essere sia la sua stessa essenza, un ente assolutamente necessario e immutabile che spiega l’esistenza dell’ente mutevole e contingente. Così si dimostra l’esistenza di Dio.

Tuttavia, se questa via appare troppo impegnativa, dato che mette in gioco la nozione dell’essere, c’è sempre la via proposta da Aristotele, per la quale partiamo dalla constatazione di cose mosse da altre, e comprendiamo che occorre ammettere un motore primo e immobile. Una volta compreso questo, potremo comprendere che questo motore dev’essere anche produttore dell’essere, ossia creatore.

Dobbiamo dire pertanto a Bontadini che la questione dell’esistenza di Dio non c’entra con la dialettica. Con la dialettica ci si ferma al probabile e al discutibile. Qui occorre certezza, perché c’è in gioco il senso della nostra esistenza.

Non si tratta di discutere su dei concetti o di contrapporre tesi opposte per cercare una conciliazione, ma di badare al reale e trarre le conclusioni di un’analisi razionale della realtà. Bontadini ha impostato male il problema dell’esistenza di Dio. Fece bene invece Aristotele a introdurre alla questione dell’esistenza di Dio con la sua famosa Fisica.

Bontadini tratta il realismo con disprezzo nominandolo «dualismo» o «gnoseologismo» e considerandolo assurdo, quel realismo per il quale il concetto, tratto dall’esperienza sensibile, è rappresentazione  di un reale o essere distinti e diversi dal pensiero, esterni e superiori al pensiero, regola del pensiero, e fa professione aperta di idealismo nel suo assioma fondamentale della coincidenza del pensiero con l’essere, affermando che l’idealismo è inconfutabile, salvo poi a sostenere la possibilità e la necessità di superare l’idealismo gentiliano, che è dimentico dell’essere, per un recupero dell’istanza dell’essere, che egli trova in Parmenide e quindi sempre sulla base dell’idealismo, giacchè Parmenide si può considerare il fondatore dell’idealismo.

Ma il guaio è che Parmenide non sa giustificare il divenire, giacchè per la sua concezione dell’essere, l’essere non può non essere e quindi non c’è spazio per l’ente contingente, che è diveniente. Per Parmenide l’essere è uno solo, è per cui non c’è spazio per le differenze, per l’alterità, per il diverso e per il molteplice.

Per Parmenide l’essere è eterno, per cui non c’è spazio per l’essere temporale. Il pensare è l’essere, per cui manca la distinzione del pensiero dall’essere. Tutto dunque è uno indifferenziato e l’uno è l’assoluto, dunque Dio. E dunque esiste solo Dio. E quindi nessuna creazione del mondo, ma identità del mondo con Dio. E questo sarebbe l’«Intero».

Il monismo ontologico panteista esiste già in Hegel, con la differenza che per Hegel l’essere è divenire e storia, mentre per Bontadini l’essere è eterno e immutabile e il tempo è solo un apparire fuggevole, particolare e successivo dell’essere, come già aveva detto Severino.

Bontadini tuttavia non se la è mai sentita di abbandonare totalmente il realismo; come gli suggerivano Gentile e Severino; anzi, con la sua tesi del pensiero «neoclassico» ha creduto di poter ricavare il realismo dallo stesso idealismo. Pensava che la metafisica di San Tommaso trovasse il suo principio non in Aristotele, ma in Parmenide.

Egli quindi vorrebbe trovare una via di mezzo fra il rifiuto gentiliano della metafisica e la metafisica realista aristotelico-tomista. Da qui la sua proposta di una metafisica «neoclassica», che sarebbe il recupero in Parmenide di quanto di valido c’è nel realismo, ossia il pensiero dell’essere, senza abbandonare ma anzi esplicitando quanto a suo giudizio è già presente nella tesi basilare dell’idealismo moderno dell’identità del pensiero con l’essere, che a lui sembra una conquista definitiva avviata da Cartesio.

Resta dunque vero che per Bontadini è assurdo un essere presupposto, prima e indipendente dal pensiero, un essere mutevole o immutabile, materiale o spirituale, che conduca a chiedersi chi lo ha causato o creato. Per lui cartesiano sono io che pongo l’essere nel momento in cui lo penso, perché l’essere è l’essere-pensato-da-me, l’essere-che-appare-a-me. Se dunque io non ci fossi, l’essere non esisterebbe. Non è infatti solo la mia coscienza ad essere relativa all’essere, ma anche l’essere è relativo alla mia coscienza. La verità, quindi non è altro che è l’autocoscienza, l’adeguarsi della coscienza a se stessa, il ritorno dello spirito su se stesso, la coincidenza dell’io con se stesso.

Occorre comunque dire che a Parmenide va il merito di avere per primo proposto in Occidente il concetto dell’einai, corrispondente al hawah ebraico e al sat dell’induismo. Successivamente Platone ed Aristotele non danno peso all’einai e preferiscono trattare dell’on, cioè dell’ente, di ciò che ha l’essere. Ed inoltre sono interessati all’usia che è l’essenza o la sostanza.

San Tommaso è molto attento al tema dell’essere (einai), benché non sapesse di Parmenide, ma aveva trovato l’essere nella Bibbia (Es 3,14) e aveva capito che l’essere può essere non solo copula o predicato ma anche soggetto (ipsum esse, detto di Dio), ed inoltre che può essere affermato senza predicato nominale (tu sei ed egli è, detti di Dio). Nulla c’è al di sopra dell’essere e tutto è al di sotto dell’essere. L’essere è atto dell’essenza come potenza di essere.

Nel sec. XIX abbiamo un rinato interesse per l’essere in Hegel, negli ontologisti e in Rosmini. C’è la tendenza ad identificare l’essere con l’essere divino e la Chiesa interviene a proibire questa operazione, che porta al panteismo. I cattolici si correggono; i protestanti, che non si curano del Magistero della Chiesa, produrranno il panteismo idealista.

Nel secolo scorso, come è noto, Heidegger propose un ritorno al pensiero dell’essere (seyn) mirando a Parmenide. Severino e Bontadini sulle orme di Heidegger, mirarono alla stessa cosa. Dispiace però che essi non abbiano pensato al preziosissimo essere di San Tommaso, che egli aveva ricavato da Es 3,14.  Tommaso aveva chiarito che l’ente è ciò che ha l’essere o l’ente in atto d’essere. Egli aveva applicato al rapporto essenza-essere la coppia dynamis-energheia, potenza e atto, che Aristotele applicava alla materia eforma.

Come il nostro intelletto coglie l’essere? San Tommaso ha una ricchissima dottrina sull’essere[2], ma non ci spiega come giungiamo all’essere, con quale mezzo o con quale metodo egli vi è arrivato. Egli ne parla come di cosa nota a tutti e tutti sapessero come vi si arriva, per cui non sarebbe necessario dare spiegazioni.

Effettivamente tutti sanno che cosa è l’essere, considerando che tutti usiamo il verbo essere. Tuttavia noi ordinariamente lo usiamo accompagnato da un predicato nominale. Ma non è facile sapere come arriviamo all’essere come verbo o come sostantivo o come nome. Quando Cristo dice di Sé «Io sono» suppone evidentemente che tutti possiamo concepire l’essere in modo assoluto.

Certamente, essendo l’essere un intellegibile, e poiché noi ricaviamo gli intellegibili dai sensibili, noi giungiamo a sapere che cosa è l’essere partendo dall’esperienza di un ente particolare che cade sotto i sensi. Quindi si tratta di un sapere mediato. Non c’è una vera esperienza o intuizione o intellezione immediata dell’essere. Noi cogliamo l’essere nell’ente e quindi dopo aver concepito l’ente. Raggiunto l’essere, comprendiamo poi tutte le sue modalità finito e infinito, potenziale e attuale, materiale e spirituale, reale ed ideale, possibile e attuale, e via discorrendo.

Severino insisteva nel sostenere la contradditorietà del divenire. Bontadini si sentiva attratto dalla posizione di Severino, che gli sembrava rigorosa, improntata al rispetto del principio di non-contraddizione. Ma non sapeva rinunciare a vedere il divenire come reale.

Fu così che il teologo domenicano Alberto Boccanegra gli suggerì di sostenere che il divenire sembra contradditorio, ma in realtà non lo è[3]. Diventa contradditorio se è assolutizzato perché così si afferma come assoluto e come relativo ad un tempo, presentandosi come spiegazione (perché assoluto) e bisognoso di spiegazione (perché relativo). Questa è la prova bontadiniana dell’esistenza di Dio. Invece Severino, che considera realmente contradditorio il divenire, non arriva a Dio come scioglimento dell’apparente contraddizione del divenire, ma trova un sostituto corrispettivo di Dio nella verità dell’essere.

Occorre però osservare che la necessità di rispettare il principio di non-contraddizione non è la ragione che conduce a porre l’esistenza di Dio; non si tratta semplicemente di sciogliere una contraddizione; ma di trovare la causa dell’effetto, e quindi di applicare il principio di causalità.

Per Bontadini creare non è causare, attuare o produrre dal nulla perchè il nulla non esiste, ma è determinare, limitare, negare, far apparire, far dipendere. Dio non è la causa prima, perché in lui la causa non produce l’effetto, ma si determina o appare come effetto. Dio non è il motore immobile; non muove niente perché il moto non esiste, ma ciò che chiamiamo moto, secondo Severino è il comparire e scomparire degli eterni e la determinazione successiva dell’essere.

La creazione dal nulla per Bontadini è impossibile perché si rifà al motto greco «dal nulla non viene nulla», trascurando il fatto che questo principio vale se si vuol considerare il nulla come causa; ma l’ex nihilo del dogma della creazione non dice affatto causalità, ma solo precedenza temporale, come a dire che l’alba proviene dalla notte.

La conclusione di questa discussione sulle idee di Severino e Bontadini viene ad essere la seguente: esiste solo l’essere assoluto, mentre ammettere Dio e un mondo diveniente esterno a Dio creato dal nulla da Dio è contradditorio e impossibile; per cui se esiste il mondo, esso è una finitizzazione molteplice di Dio interna a Dio e identica a Dio. Il Dio totale è la sintesi del Dio parziale e del mondo, ossia l’Intero. Dunque il panteismo.

La differenza fra Severino e Bontadini sta nel fatto che mentre Severino non parla di Dio, ma solo dell’essere, perché la parola Dio gli evoca il Dio cristiano creatore del mondo dal nulla, e crede che  il concetto di creazione sia nichilismo, Bontadini, che vuol essere cattolico, mantiene la parola «Dio» col significato di essere assoluto, non però come causa efficiente e motrice prima ed ente supremo, ma come unico essere esistente, per cui la creazione per Bontadini non è produzione di essere, ma semplice dipendenza formale del mondo da Dio internamente a Dio, libero dalla contraddizione appunto perchè identico all’Identità divina.

L’impostazione del problema dell’esistenza di Dio

A contatto con gli enti divenienti posso immaginare un ente immutabile; a contatto con gli enti finiti posso immaginare un ente infinito; a contatto con gli enti imperfetti posso immaginare un ente perfettissimo. Considerando gli enti corruttibili, contingenti o relativi, posso pensare a un ente incorruttibile, necessario e assoluto. Considerando i gradi dell’essere, posso immaginare un ente altissimo, ottimo, sommo, supremo e intrascendibile. Considerando un ente che ha l’essere, posso pensare a un ente che è l’essere. Pensando al fatto che io esisto finitamente, posso immaginare un Io che esiste infinitamente.

Ma chi mi dice che ciò che immagino esista veramente? Non avrà ragione Marx a dire che la religione è frutto di immaginazione? Per non vagare nell’immaginazione o nelle astrazioni, se ho un problema di realtà, devo restare aderente alla realtà. Devo accogliere ciò che mi dà la realtà e vedere dove essa mi conduce. Allora avrò un vero sapere e non il frutto della mia immaginazione reificato.

Che cosa intendiamo con la parola «Dio»? L’essere assoluto? La causa prima? Prima di procedere alla dimostrazione occorre mettersi d’accordo sul significato di ciò di cui parliamo.  Se chiedo a uno se esiste il metrodonte, mi chiederà per prima cosa che cosa intendo con la parola metrodonte. Inoltre c’è da tener presente che un conto è giungere a sapere che Dio esiste e un conto dimostrarlo agli altri. Dimostrare l’esistenza di Dio vuol dire dimostrarlo agli altri, che però sanno già, almeno implicitamente, che Dio esiste. Può servire però per correggere falsi concetti di Dio.

La vera questione dell’esistenza e la sua soluzione non sta nell’immaginare un essere perfettissimo, dire che se è perfettissimo include l’esistenza, concludendo con l’affermazione che esiste, se no non sarebbe perfettissimo.  Il problema dell’esistenza di Dio non riguarda l’immaginazione, ma è il problema di chi s’interroga sulla realtà delle cose e si domanda da dove vengono e quale ne é la causa. Non si tratta di concepire una certa essenza, ma è un problema di esistenza e di causa dell’esistenza.

Anche quando ho immaginato un essere perfettissimo che includa l’esistenza, sono sempre davanti a qualcosa che è nel mio pensiero. Ma il problema non è quello di formare un pensiero sublime. Il problema è quello di qual è la causa del mondo e di me stesso e del mio pensare. Per questo San Tommaso critica la famosa prova di Sant’Anselmo, dicendo che non tiene, perché se uno sa che Dio è l’essere perfettissimo, vuol dire che ne ha già dimostrato l’esistenza partendo dalle creature. È infatti solo partendo da queste e chiedendosi chi le ha create che si viene a sapere che esiste il creatore. A questo punto si verrà a sapere che è perfettissimo e che la sua essenza è quella stessa di esistere.

La prima verità immediatamente nota a tutti non è sapere che Dio esiste, ma sapere che gli enti o le cose esistono e l’ente esiste. La prima verità che apprendiamo ricavata dall’esperienza sensibile ed espressa nel giudizio è l’intuizione dell’essere.

Ma l’essere non è ancora l’essere divino. Esiste per noi all’inizio l’essere causato, analogico e partecipativo. È vero che Dio è assoluta identità dell’essere necessario. È vero che il diveniente da solo senza Dio è un’assurdità. È vero che l’ammissione dell’esistenza di Dio toglie quest’assurdità. Ma è anche vero che noi non possiamo farci un concetto di Dio senza passare dalla nozione del diveniente.

Infatti è solo quando ci domandiamo chi ha causato il diveniente che scopriamo Dio. Noi non abbiamo affatto, come crede Bontadini, un concetto o un’esperienza di Dio prima di concepire il diveniente. Se noi nel divenire vediamo solo una contraddizione e concepiamo il principio di non-contraddizione alla maniera di Parmenide, siamo bloccati in partenza e non arriveremo mai a Dio.

Chi possiede il concetto di Dio sa già che Dio esiste come causa prima delle cose. Il Dio al quale arriva Bontadini negando la supposta contradditorietà del divenire, o suppone una petizione di principio oppure è un Dio non creatore, ma panteistico; il che è come dire che è un falso Dio.

Inoltre la concezione parmenidea dell’essere come uno-tutto, porta Bontadini a ritenere che solo Dio esista, perché crede che un essere creato esterno a Dio aggiungerebbe qualcosa a Dio. Il che è evidentemente impossibile. Bontadini non considera il fatto che l’essere creato esterno a Dio non aggiunge nulla a Dio perchè semplicemente partecipa dell’essere, mentre in Dio il mondo coincide con Dio.

 Sempre mosso da questa preoccupazione, Bontadini considera impossibile l’incremento di essere. Ma ciò vuol dire negare l’attività creatrice divina, capovolgerne la direzione dall’affermazione alla negazione dell’essere, attivitàà divina che è creazione di sempre nuove anime umane. Così succede che Bontadni viene a negare la creazione divina come produzione di enti esterni a Dio. Il mondo è solo in Dio, per cui succede che il Dio di Bontadini diventa un Dio-mondo, un Intero come sintesi di Dio e del mondo, che ricorda tanto da vicino quello che San Paolo chiama «dio di questo mondo» (II Cor 4,4).

L’essere sferico

Parmenide ci offre un’immagine visiva e vorremmo dire plastica del suo concetto dell’essere, quando parla dell’essere «pieno e rotondo». Questa immagine corposa e semplicissima rappresenta in modo alquanto significativo la visione cosmico-metafisica parmenidea di Severino e Bontadini.

Questa sfera, che rappresenta l’unità dell’essere uno-tutto parmenideo, spinge la nostra immaginazione a concepire un materiale plastico globale e onnicomprensivo, tale da poter rappresentare le diverse forme o determinazioni che la materia totale può assumere ed assume a seconda della pluralità e varietà infinita degli enti o individualità nei quali essa si esprime e si attua particolarizzandosi e finitizzandosi.

L’immagine esprime bene altresì il concetto di un Dio inteso non come sostanza trascendente creatrice delle sostanze finite, ma in modo spinozistico come unica sostanza divina, della quale gli infiniti modi o accidenti in continua espansione, contrazione, evoluzione e successione, appaiono e scompaiono, si allontanano e si avvicinano, si dividono e si uniscono, ma sempre come parti dell’unica sostanza o dell’Intero.

Le conseguenze sociali del panteismo

Il panteismo proviene sia dall’io sono cartesiano esplicitato da Fichte che dall’essere parmenideo. In entrambi i casi il pensiero è identificato con l’essere, proprietà, questa, che è esclusivamente appartenente di Dio; per cui, l’essere viene identificato con l’essere divino. Da qui il panteismo.

Chiediamoci: che senso ha per il panteista il tu sei? Chi è l’altro per il panteista? È un semplice non-io? Chi è il mio prossimo? Se io sono l’essere (Cartesio-Parmenide), sono tutto io e non c’è niente al di fuori di me. Come può esistere un altro da me?  È indipendente da me?

È lo stesso problema che si pone Husserl: se io sono la «soggettività», cioè l’assoluto, come possono esistere altre soggettività? Infatti la soggettività non è una sola? Ci sono più assoluti in relazione fra di loro? Infatti ogni io, ogni individuo ha diritto di considerarsi l’uno e il tutto, ossia di considerarsi la soggettività. Allora Husserl parla di una «intersoggettività»[4], ma ovviamente non riesce a trovare un principio di ordine, di concordia e di unione, giacchè ognuno ha il diritto di dire: io sono Dio. Ma allora che assoluto è quello che necessita di una relazione con altri assoluti? Il risultato di questo intrigo può essere solo quello di un contrasto di ognuno e di tutti contro tutti, perché ognuno vorrà imporre agli altri la propria volontà, per cui ognuno o sarà schiavo o sarà padrone.

Inoltre il panteista a chi dice tu? Può dire tu al vero Dio? No, perché Dio è lui. Eppure egli vive in società e non può fare a meno per bisogni vitali di interloquire con gli altri. A chi si rivolge, allora?  Se parla con un suo simile, lo subordina a sè, giacchè egli è Dio. Ma a sua volta, se l’altro è Dio, sarà lui ad assoggettarsi. Ma può il panteista avere un dio al quale parlare? Sì, è il dio di questo mondo (II Cor 4,4), che gli ha insegnato a ripudiare il realismo per l’idealismo, ossia a disobbedire al Dio trascendente, per obbedire a se stesso.

P. Giovanni Cavalcoli

Fontanellato, 16 settembre 2025

Per Parmenide l’essere è eterno, per cui non c’è spazio per l’essere temporale. Il pensare è l’essere, per cui manca la distinzione del pensiero dall’essere. Tutto dunque è uno indifferenziato e l’uno è l’assoluto, dunque Dio. E dunque esiste solo Dio. E quindi nessuna creazione del mondo, ma identità del mondo con Dio. E questo sarebbe l’«Intero».

Come il nostro intelletto coglie l’essere? San Tommaso ha una ricchissima dottrina sull’essere, ma non ci spiega come giungiamo all’essere, con quale mezzo o con quale metodo egli vi è arrivato. Egli ne parla come di cosa nota a tutti e tutti sapessero come vi si arriva, per cui non sarebbe necessario dare spiegazioni.

La creazione dal nulla per Bontadini è impossibile perché si rifà al motto greco «dal nulla non viene nulla», trascurando il fatto che questo principio vale se si vuol considerare il nulla come causa; ma l’ex nihilo del dogma della creazione non dice affatto causalità, ma solo precedenza temporale, come a dire che l’alba proviene dalla notte.

La conclusione di questa discussione sulle idee di Severino e Bontadini viene ad essere la seguente: esiste solo l’essere assoluto, mentre ammettere Dio e un mondo diveniente esterno a Dio creato dal nulla da Dio è contradditorio e impossibile; per cui se esiste il mondo, esso è una finitizzazione molteplice di Dio interna a Dio e identica a Dio. Il Dio totale è la sintesi del Dio parziale e del mondo, ossia l’Intero. Dunque il panteismo.

La differenza fra Severino e Bontadini sta nel fatto che mentre Severino non parla di Dio, ma solo dell’essere, perché la parola Dio gli evoca il Dio cristiano creatore del mondo dal nulla, e crede che  il concetto di creazione sia nichilismo, Bontadini, che vuol essere cattolico, mantiene la parola «Dio» col significato di essere assoluto, non però come causa efficiente e motrice prima ed ente supremo, ma come unico essere esistente, per cui la creazione per Bontadini non è produzione di essere, ma semplice dipendenza formale del mondo da Dio internamente a Dio, libero dalla contraddizione appunto perchè identico all’Identità divina.

Parmenide ci offre un’immagine visiva e vorremmo dire plastica del suo concetto dell’essere, quando parla dell’essere «pieno e rotondo». Questa immagine corposa e semplicissima rappresenta in modo alquanto significativo la visione cosmico-metafisica parmenidea di Severino e Bontadini.

Immagine da Internet: Kandinsky 
 

[1] Il concetto della creatio ex nihilo. Ipoteca nichilistica e rigorizzazione metafisica, in Sacra Doctrina,1/2017, pp.199-269.

[2] Cornelio Fabro espone con molte citazioni la dottrina tomista sull’essere in Tomismo e pensiero moderno, Libreria Editrice della Pontificia Università Lateranense, Roma 1969, pp.103-133.

[3] Vedi Marco Berlanda, L’unica svolta di Bontadini. Dal fideismo attualistico alla metafisica dell’essere, Edizioni Vita e Pensiero, Milano 2022, p.472.

[4] Logica formale e trascendentale, Editori Laterza, Bari 1966, pp.294, 295, 296, 303, 304, 309,310, 335, 337, 338.

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