Il pensare umano e il pensare divino
Terza Parte (3/4)
Il superamento dei concetti
Nel concettualizzare l’essere divino dice che il concetto «scoppia», diventa inutilizzabile. Il teologo domenicano sostiene che
«ogni tentativo di concettualizzare l’Assoluto porta allo scardinamento logico della concettualizzazione. Anche la stessa nozione di Assoluto cade nella stessa condizione di relatività concettuale. … L’esplosione dei concetti e delle parole porta al silenzio: mistica, myo, sto zitto»[1].
Giunge a dire che il linguaggio dell’ateo esprime l’esperienza mistica. Allora Nietzsche vale tanto e di più di San Tommaso. Mi chiedo allora a che scopo fare tanta fatica a procurarsi il titolo di dottore in teologia, a che pro scrivere tanti libri e che senso ha il suo essere figlio di quel San Domenico, del quale si narra che il suo principale interesse era o il parlare di Dio o il parlare con Dio.
Se Dio è Colui Che È (Es 3,14), come fa a dire che è impossibile formare un concetto di Dio e raggiungere nozioni vere che ci mostrino chi è Dio? Che senso ha la rivelazione cristiana? Che cosa rivela? Che cosa ci fa sapere? Dove va a finire la teologia naturale e la teologia dogmatica? Che ne è del dogma? Che ne è del Magistero della Chiesa? Che ne è della predicazione del Vangelo? Che ne è della morale cristiana? E come fa a dire tante cose su Dio, se è impossibile formarne un concetto?
Indubbiamente non possiamo rappresentarci adeguatamente Dio comprensivamente con i nostri concetti creati e finiti. Occorrerebbe il Logos divino. Eppure, come dice San Paolo, il cristiano ha il pensiero di Cristo. La nozione analogica illuminata dalla rivelazione sa chi è Dio, benchè ovviamente non ne comprenda l’infinita intellegibilità. Solo che in tal caso è legittimato a parlare di Dio sensatamente senza contraddizioni e senza darsi la zappa sui piedi.
Che poi si debba tacere quando il concetto vien meno o non sappiamo esprimere in parole quello concepiamo o vediamo o sentiamo o sperimentiamo nel fuoco della carità, d’accordo. Ma ciò non vuol dire affatto che il mistico cristiano abbandoni o superi i concetti o sospenda l’attività intellettuale per sperimentare Dio e tanto meno per scoprire di essere Dio o per diventare Dio o l’Assoluto.
Questa non è mistica, non è cristianesimo e neanche buon senso, ma induismo, gnosticismo e superbia. Il mistico resta un normale credente, uomo di fede e fruente delle nozioni del Catechismo. Solo che queste nozioni sono rese così affettive nel fuoco della carità, che il mistico non riesce più ad esprimere quello che concepisce a causa della coscienza datagli dalla carità dell’oltrepassamento di ciò che Dio è rispetto a ciò che di Dio egli capisce.
San Tommaso parla bensì di un’esperienza mistica di Dio, ma precisa che questo contatto diretto con Dio non è opera dell’intelletto, che fa uso dei concetti di fede, ma dipende dalla carità, come dice l’Aquinate: «caritas est de eo quod iam habetur». Dio lo vedremo un giorno in paradiso, ma con la carità lo possediamo fin da adesso[2].
Barzaghi sembra comunque porre tuttavia delle restrizioni al pensare nel caso dell’uomo:
«Pensare, Essere e Assoluto sono dunque aspetti di una medesima realtà. Nell’atto del pensare siamo coinvolti con l’Essere Assoluto, dunque, ma non possiamo da ciò concludere la nostra assoluta identità con l’Essere Assoluto, il quale, per essere tale, deve essere assolutamente trasparente a se stesso, oltre che come pensare anche come conoscere. … L’atto del pensare o il pensiero come atto, per il quale sono coinvolto nell’Assoluto, non è un conoscere assoluto: dal fatto che penso, intendo infinite cose, e l’infinito stesso e l’Assoluto stesso – non l’idea o il concetto dell’Assoluto -, da ciò non segue che io conosca infinite cose, né che conosca o comprenda infinitamente e assolutamente le poche cose che conosco»[3].
Dire che eguaglio Dio nel pensare ma non nel conoscere non basta per evitare il panteismo. Devo dire chiaramente che il mio pensare è finito e relativo, mentre il pensare divino è infinito e assoluto; che in me il pensare è atto della potenza di pensare e non è come in Dio puro atto di pensare e pensare sussistente. Devo dire che il mio pensare presuppone il reale, mentre il pensare divino produce il reale. Devo dire che il mio pensare è trasceso dall’essere, mentre il pensiero divino è intrascendibile perchè ingloba tutto l’essere.
Con la sua teoria del pensiero puro egli cancella la distinzione fra ragione, fede e visione beatifica: «radicalmente fede, ragione come pensiero puro e visione beatifica sono la stessa cosa»[4]. Evidentemente confonde il lume naturale della ragione col lume soprannaturale della fede e col lume di gloria della visione beatifica.
Nei concetti la ragione conosce Dio per mezzo delle creature, la fede s’innalza alla conoscenza soprannaturale del dato rivelato, la visione beatifica è senza concetto, è la visione diretta e immediata in cielo del volto del Padre e del Figlio, nella fruizione dello Spirito Santo.
Nella vita presente che comporta l’unione dell’anima col corpo il concetto teologico, salvo specialissimi doni di grazia, è necessario alla conoscenza di Dio per il fatto che l’intelletto deve ricorrere all’immaginazione. L’anima separata dopo la morte non forma più nuovi concetti, essendo priva del corpo, ma conserva i concetti formati durante la vita terrena o semmai deduce altri concetti dai precedenti.
Se l’anima è salva, l’intelletto vede immediatamente l’Essenza divina in cielo; utilizza i concetti di cui è già in possesso, se è in purgatorio; respinge con rabbia questi concetti, qui effettivamente li fa esplodere e li distrugge, se è dannata e cade nelle tenebre, ben diverse dalle tenebre mistiche, perchè qui il concetto fa da lampada nella notte, mentre all’inferno l’anima, respingendo con odio il concetto di Dio, si trova nel buio totale. Il «mistero assoluto», del quale parla Rahner assomiglia di più alla tenebra infernale che a quella mistica.
Egli ha un concetto sbagliato della visione beatifica, in coerenza col suo idealismo gentiliano, per il quale il pensiero non pensa un reale esterno, ma pensa il suo atto di pensare. Per questo, per lui è sbagliato credere che nella visione beatifica ci sia «una cosa da vedere»[5]. E invece questa cosa sublime e beatificante c’è ed è Dio. Col pretesto che Dio è pura attività, allora la visione secondo lui sarebbe pura attività di pensiero che pensa se stesso. Ma il pensiero è immagine della cosa. Se non c’è la cosa da pensare, dove va e finire il pensiero?
Notiamo per inciso che gli ortodossi rifiutano il dogma della visione immediata dell’essenza divina perché comporterebbe il panteismo. Per questo sostengono che l’oggetto immediato della visione non è Dio ma la gloria (l’”energia”) divina. Senonchè panteismo si avrebbe se si pretendesse che l’atto dell’intelletto fosse infinito in sé stesso e nella sua capacità, il che è evidentemente escluso dal dogma, trattandosi di intelletto creato. Esso invece è proporzionato alla visione dal lume della gloria celeste. È chiaro invece che l’atto intellettuale è finito come atto, benchè l’oggetto divino sia infinito. Ossia vede finitamente l’Infinito.
Aggiungiamo che l’abbandono dei concetti non garantisce necessariamente la visione, ma affinchè essa si verifichi occorre lo stato di grazia, che non sempre è presente. Barzaghi sembra ignorare la possibilità della dannazione e concepire la visione beatifica come strutturale al pensare come tale.
Egli comunque distingue in questi termini un modo umano da un modo divino di pensare. Egli dice:
«Il pensiero puro è la coincidenza con la pura attività che è l’Assoluto: non oggettivazione. Occorre notare che la distinzione fra modo umano e modo divino sta proprio qui. Il modo umano è concettuale; il modo divino è aconcettuale: oltrepassamento dei concetti, cioè dell’oggettività. Pura attività nell’attività»[6].
Ora però questa distinzione, in lui, si trova sempre all’interno del «pensiero puro» identico all’Assoluto: «Fede e Ragione coincidono radicalmente nel Pensiero, cioè nel sapere l’Assoluto assolutamente»[7]. Diciamo che la vera distinzione fra pensare umano e pensare divino non sta nei termini suddetti, ma sta nel fatto che il pensare umano è un pensare distinto dall’essere e dipendente dall’essere, mentre il pensare divino è pensare identico all’essere. Ora egli, ammettendo che l’uomo possa compiere atti del pensiero puro ossia divino, non riconosce veramente l’essenza del pensare umano, ma lo confonde col pensare divino.
Tuttavia non è vero, come egli crede sulla scia di Heidegger, Severino e Rahner, che il concepire sia legato solo al conoscere e non al pensare. Non è vero che il pensare sia un’autocoscienza atematica originaria di essere alla maniera di Cartesio, o un comprendere o un intuire o sperimentare preconcettuale, tematicamente inconscio, dal quale deriverebbe la concettualizzazione come esplicitazione nozionale e tematica o apparizione fenomenica della precedente autocoscienza originaria.
È vero che il pensabile è più ampio del conoscibile, perché mentre quello abbraccia anche il possibile, questo comprende solo il reale attuale. L’essenza copre uno spazio di pensabilità ed intellegibilità maggiori dell’ente in atto, in quanto, mentre questo si riferisce all’essere attuale o al realmente esistente, l’essenza di per sé può essere un puro possibile o ideale che va al di là dell’attuale e quindi copre uno spazio più ampio di intellegibilità e pensabilità, ma non di conoscibilità, perchè non esistente nella realtà.
Tuttavia nel sapere teorico e pratico noi deduciamo il possibile dall’attuale e non viceversa, come vorrebbero gli idealisti. A posse ad esse non valet consequentia, dice giustamente un principio della logica. Qui tra l’altro sta il difetto della dimostrazione dell’esistenza di Dio – il famoso «argomento ontologico», non per nulla caro ad Hegel -, in base all’idea di Dio e non partendo dalla realtà delle cose, per ea quae facta sunt, come dice San Paolo (Rm 1,20).
Il pensiero puro
Barzaghi non ci dà una definizione del pensiero in generale, applicabile analogicamente per Dio e per l’uomo, ma parte subito con una definizione che va bene per il pensiero divino, per cui viene logica la conseguenza che quando l’uomo pensa, è Dio. Dice infatti: «scoprire il pensiero puro vuol dire oltrepassare i concetti»[8]. Allora il pensiero umano che usa i concetti, che cosa è? Pensiero impuro? È per lui un pensiero misto al concetto, non necessario all’esistenza del pensiero, perché secondo lui il pensiero puro, che sarebbe poi il pensiero identico all’essere, il Pensiero Assoluto, non è concettuale. Ora, il pensiero divino, al quale egli evidentemente allude senza riconoscerlo, è anch’esso concettuale come lo è il pensiero umano. Non sta qui la differenza fra il pensare umano e il pensare divino. Il Concetto divino è lo stesso Logos, il Figlio di Dio.
Così allora descrive l’esperienza del puro pensare:
«Perdersi nel puro pensiero, cioè nel puro atto di pensiero vuol dire sospendere momentaneamente la conoscenza concettuale»[9], perché così l’intelletto «coglie lo Spirito Assoluto»[10]. Questa sarebbe la condizione del «povero in spirito», della quale parla Meister Eckhart, citato da lui. «Il povero in spirito è tutto, l’intero, l’essere. Egli coglie nel fondo della propria anima l’identità con l’Assoluto, che è Dio»[11]. «Questo fondo dell’anima – egli dice - io lo chiamo pensare, atto del pensare allo stato puro»[12]. Vediamo l’anima identificata col pensare che a sua volta è cogliere l’identità con l’Assoluto che è Dio.
Egli mette in luce ed insiste su quello che egli chiama «pensiero puro», che vorrebbe intendere come atto del pensare umano o del filosofare, ma lo intende con caratteri che in realtà oltrepassano non solo il limite dell’intelletto umano, ma anche quello dell’intelletto illuminato dalla fede e sembra già essere la visione beatifica. Dice infatti:
«Il pensiero puro è già una tangenza pre-concettuale con l’Essere Assoluto (si noti bene: non con l’idea dell’essere, né con l’ente in comune, né con l’idea di Dio. Questi sono già dati concettuali, e quindi di ordine conoscitivo: non sono il termine intenzionale del pensiero puro, cioè del pensare come atto puro del pensare»[13].
Vorremmo ricordare che propriamente il puro atto del pensare è solo quello divino, giacchè Dio è al contempo puro atto di essere e pensare.
Al posto della distinzione fra pensiero umano e pensiero divino, Barzaghi fa una distinzione fra «dimensione metafisica» del pensiero e pensiero «in termini cosmologici o psicologici»[14], dove la prima è presentata nei termini che convengono al pensiero divino, e tuttavia egli non nomina Dio, mentre il secondo è definito come «una facoltà umana», per la quale si dà un «dentro e fuori il pensiero», che sarebbero semplici «modi di dire» relativi al modo umano del pensare[15].
Si provi a confutare l’evidenza palmare di questa constatazione dello Stagirita. L’identificazione del pensiero con l’essere non corrisponde affatto alla nozione originaria del pensiero, ma è una nozione derivata, costruita per spiegare la natura dell’essere e del pensare di Dio. Fare di questa nozione la nozione originaria del pensiero vuol dire rovesciare l’ordine del conoscere, che prima forma il concetto del pensare in quanto distinto dall’essere e successivamente per spiegare il mistero di Dio identifica il pensare con l’essere.
Egli invece afferma:
«in linea descrittiva o fenomenologica il pensare come atto si presenta con un’imponenza tale da non poter essere assolutamente “catalogato”. Quando cerco di descrivere il pensiero come atto o il pensare, non posso fare a meno di presentarlo come l’estensione infinita dell’essere, che non esclude nulla da sé - cioè esclude il nulla, perchè appunto è il nulla, non c’è. Il pensiero e l’essere sono la stessa cosa, perché come nulla è fuori dell’essere, così nulla è fuori del pensiero»[16].
Ora bisogna osservare che questo rapporto che egli stabilisce fra il pensiero definito con i caratteri dell’assoluto e il pensiero umano presentato come risultato dell’«analisi psicologica e cosmologica del pensiero» lascia ben capire che egli intende il pensare umano non come un atto creaturale distinto dall’essere, che si rapporta col pensare divino identico all’essere, ma come lo stesso pensiero assoluto espresso in termini umani. Ora il pensare umano non è un modo finito del pensiero assoluto, come avviene nel panteismo di Spinoza, ma è atto della creatura distinta dal pensiero divino creatore.
Per lui il filosofare originario, «il primo livello del filosofare», come lo chiama, è
«il livello del pensiero puro, quello del puro atto di pensare. Si tratta della dialettica originaria, per la quale il Positivo o l’Essere Assoluto è invincibilmente presso sé stesso, come da sempre vittorioso sul negativo e completamente trasparente a sé stesso. È la Sapienza assoluta, che da sempre il pensare (l’intelletto agente) possiede in forma preconcettuale»[17].
Il filosofare originario per Barzaghi è dunque l’atto puro di pensare, preconcettuale, la dialettica dell’Essere Assoluto, la Sapienza assoluta. E questo sarebbe l’intelletto agente. Vediamo subito la confusione fra il filosofare, atto del pensiero umano, con l’Essere Assoluto, la Sapienza assoluta, che sono evidentemente Dio e quindi col pensare divino. Questo è il filosofare dell’idealista, che si crede l’apparizione del Pensiero assoluto.
Il filosofare originario sarebbe l’essere «chiusi nel pensiero», mentre ciò corrisponderebbe all’essere «aperti al tutto, all’Assoluto»[18]. Ora bisogna osservare che se il nostro pensiero coincidesse con quello divino, che abbraccia tutto l’essere, la tesi sarebbe vera. Ma, dato che il nostro pensare è relazione al reale esterno, se ci chiudiamo nel nostro pensiero, gli blocchiamo ogni progresso e ogni nuovo apprendimento, non ascoltiamo le ragioni o le critiche degli altri e finiamo per credere di non aver più nulla da imparare. Il nostro pensiero, privo dell’alimento che viene dal reale, si fossilizza nel già saputo, chiuso ad ogni novità.
Ma l’idealista sa giocare anche la parte del realista. Parlando con maggiore franchezza, dovremmo dire, per usare un’espressione di Cristo, che egli serve a due padroni. Uno è il Dio col quale s’identifica, il Dio dell’idealismo, l’io trascendentale di origine cartesiana, e l’altro è il Dio del Catechismo e di San Tommaso, ossia il Dio del realismo, che gli procura la considerazione e la stima da parte dell’ambiente sociale ed ecclesiale.
Ecco dunque l’idealista conscio della convenienza, accondiscendere, al filosofare realista, che così Barzaghi descrive:
«Il secondo livello è quello del conoscere. Si tratta della dialettica originata, per la quale il pensiero puro si nasconde e si rivela attraverso le idee o i concetti che ne esprimono i contenuti. Questi contenuti del pensiero rappresentano la comprensione conoscitiva che l’intelletto possibile esercita, concependo relativamente – cioè in modo relativo o relazionale - l’Essere Assoluto. I concetti sono il modo con il quale il nostro intelletto conosce e comprende la realtà creata – e quella increata, per riferimento o sulla base di quella creata. Tutto il mondo creato e creabile – cioè manifestato o manifestabile – è l’espressione condensata in intellegibili, o specie, dell’Essere Assoluto»[19].
L’idealista associa dunque il suddetto filosofare originario, nel quale si pasce della coscienza della propria divinità, ad un filosofare derivato e strumentale, col quale recita la parte del realista, rispettoso dei dogmi della fede e dei riti liturgici, ligio alle pratiche esterne della morale, alle osservanze regolari, alle convenzioni sociali, con cura attenta della propria onorabilità e della propria buona fama.
Viene in mente il metodo fenomenologico raccomandato da Husserl, per il quale al fine di attuare il filosofare radicale, dobbiamo identificarci con la Soggettività assoluta, al di là e al di fuori della quale nulla esiste, mettendo tra parentesi il realismo gnoseologico. Tuttavia Husserl non esclude che, quando può farci comodo lo possiamo usare. Questa maniera di filosofare fa sorgere in noi la precisa impressione di trovarci davanti a un neofarisaismo, per la quale si nasconde sotto un’apparente rispettabilità una sostanziale soddisfazione del proprio egocentrismo e l’assolutizzazione del proprio io.
Il punto di vista di Dio
Barzaghi propone un far filosofia e teologia tale da consentirci di vedere le cose, noi, Lui e il mondo dall’alto, nella luce dell’eterno, così come le vede Dio, sub specie aeternitatis. La proposta è senz’altro buona, ma va intesa bene, con prudenza e umiltà, altrimenti, se ci montiamo la testa, invece di salire a Dio precipitiamo nell’inferno. Acquisire il pensiero di Dio rivelatoci da Cristo è cosa bellissima, utilissima e fruttuosissima, ma va attuato nel dovuto modo e con i dovuti mezzi. L’occhio della fede non è altro che una partecipazione nella nostra mente in grazia dello stesso pensiero di Dio, il punto di vista di Dio Su sé stesso, su di noi e sul mondo.
Questo vedere, questo pensare va inteso però secondo il modulo realista, non quello idealista. Benchè in Dio essere e pensare coincidano, Egli sa ben distinguere il mondo da Lui creato fuori di Lui dal suo pensare il mondo come idea creatrice del mondo. Anche per Dio, benchè il mondo sia contenuto virtualmente nell’essenza divina identico con essa, il mondo in sé stesso da Lui creato lo vede come esterno a Lui. L’assumere il punto di vista di Dio non ci autorizza affatto a credere che il nostro pensare s’identifichi con l’essere. La nostra autocoscienza resta originata e a posteriori e niente affatto originaria e a priori come quella divina.
Occorre pertanto notare che, come Cartesio e come Husserl, Barzaghi concepisce l’autocoscienza come «un dato originario: si tratta dell’immediata trasparenza di sé al pensiero»[20]. Ora, per la verità nell’uomo la trasparenza di sé al pensiero non è affatto immediata, ma è il risultato finale del processo della conoscenza del reale, che ha il suo inizio nella percezione e nel pensiero delle cose esterne. È solo l’autocoscienza divina che non ha quel presupposto, giacchè Dio non trae il suo conoscere come noi dalle cose, ma alla luce della sua autocoscienza, che è lo stesso pensiero divino, Egli idea, pensa e crea le cose stesse. Egli dichiara che l’autocoscienza, che è il pensiero puro e che chiama anche «pensiero-pensante», corrisponde all’io trascendentale dell’idealismo[21].
Occorre allora notare che nel pensiero divino le cose vanno ben diversamente da come avvengono in noi. È errore gravissimo attribuire a noi ciò che appartiene a Dio. È chiaro che in Lui pensare e conoscere coincidono nella semplicità della sua attività intellettuale, atto puro di essere. Tuttavia non ci è proibito distinguere anche in Lui, sebbene solo nozionalmente, un’autocoscienza e una conoscenza, un pensare e un conoscere, un intuire e un concettualizzare: non esiste forse in Dio il Logos?
E allora dobbiamo dire che in Lui avviene l’inverso di quanto avviene in noi. Egli inizia – e di inizio si può parlare - effettivamente con un atto di pensiero riflesso e precisamente con l’autocoscienza, proprio come Cartesio e gli idealisti immaginano che avvenga per l’uomo, per cui siamo sempre daccapo nel constatare come essi confondono il pensare umano con quello divino. Infatti Dio, sulla base della sua autocoscienza, pensa e progetta il mondo, lo crea e lo conosce dettagliatamente e concettualmente nel Logos come di fatto esistente fuori di Sé.
Precisiamo allora, riprendendo l’esposizione della natura del pensiero, che se per noi il rappresentare nel concetto, presuppone il reale già esistente ed è ricavato dal reale, per Dio il Logos è criterio, modello e principio della stessa esistenza del reale – in tal caso abbiamo l’idea -, allora abbiamo il pensare divino. È chiaro che Dio non ha bisogno di farsi un concetto delle cose come dobbiamo fare noi.
Infatti a Lui basta idearle. Noi invece che partiamo da condizioni di ignoranza, apprendiamo le essenze delle cose formandocene un concetto astratto dall’esperienza della cosa concreta. Ma anche noi possiamo possedere un sapere non concettuale. È il sapere coscienziale, ossia la visione dei contenuti di coscienza, dei nostri pensati, dei nostri pensieri, propositi, intenti e ragionamenti, che non hanno bisogno di essere concettualizzati perchè sono già conformi al nostro spirito. Invece possiamo concettualizzare o farci un concetto degli enti di ragione, logici, morali, teologici, matematici ed immaginari.
Inoltre Barzaghi, col pretesto che noi possiamo metterci dal punto di vista di Dio e vedere le cose come le vede Lui, vuol farci credere che noi, elevandoci alla sua gnostica «autocoscienza assoluta, originaria e intrascendibile», preconcettuale e preconscia, otterremmo che il nostro pensare pareggi o si uguagli con quello divino, per cui, come il pensare divino è identico all’essere, così il nostro pensare s’identificherebbe con l’essere.
Ora è vero che San Paolo, parlando della conoscenza di fede, nozionale e per nulla atematica, dice che noi possediamo il pensiero di Cristo, e quindi diciamo pure lo stesso sguardo di Dio, ma siamo sempre daccapo: è chiaro che Paolo non vuol dire che l’atto del nostro pensare s’identifichi con la perfezione infinita di quello divino , ma semplicemente che noi, grazie alla rivelazione, mediante le nozioni di fede, arriviamo a sapere su Dio cose alle quali non arriveremmo mai elevandoci con le forze della sola ragione.
È stupefacente al riguardo come il Card. Biffi, teologo di alta sapienza, anche se troppo vicino a Soloviev, ma sostanzialmente fedele alla Chiesa, si sia lasciato ingannare, tanto da scrivere una prefazione entusiastica al libro Lo sguardo di Dio, Saggi di teologia anagogica:[22], libro che il Porporato giudica «insolito e coraggioso», ma purtroppo in realtà il libro, bene esaminato, non si rivela né insolito né coraggioso, ma di mentalità diffusa e opportunista, perchè s’inserisce nel filone oggi largamente influente e attraente del rahnerismo.
Si vede che Biffi fraintende il discorso sullo sguardo di Dio intendendolo come una «prospettiva radicalmente contemplativa». Crede che si tratti del «punto di vista anagogico del vedere dall’alto sub specie aeternitatis» e non si accorge che l’impostazione barzaghiana non è per nulla quella realista, ma quella di Spinoza, il quale pure usa la stessa espressione latina, ma in senso panteista.
Ora, dobbiamo dire che è vero che noi possiamo pensare il tutto, ma che non possiamo conoscere tutto, ossia tutte le cose nel dettaglio. Ciò appartiene solo a Dio. In tal senso il nostro sapere è finito. Barzaghi riconosce che solo il conoscere divino è esauriente e totalmente comprensivo dell’essenza di ogni cosa. Noi abbiamo sempre da imparare; Dio sa già tutto a priori. In tal senso egli riconosce che solo Dio è onnisciente. E tuttavia, col suo identificare o far coincidere il pensare con l’essere, viene ad attribuire l’onniscienza anche all’uomo. Egli crede che non esistano cose alle quali non pensiamo. Ma giustifica ciò con la ragione sofistica che nel momento in cui facciamo questa affermazione, le pensiamo e quindi diventano pensate, senza accorgersi che le pensiamo sì, ma proprio in quanto non pensate, per cui ontologicamente restano non pensate. Ritorna la solita confusione idealistica fra l’essere e l’essere pensato.
Fine Terza Parte (3/4)
Indubbiamente non possiamo rappresentarci adeguatamente Dio comprensivamente con i nostri concetti creati e finiti. Occorrerebbe il Logos divino. Eppure, come dice San Paolo, il cristiano ha il pensiero di Cristo. La nozione analogica illuminata dalla rivelazione sa chi è Dio, benchè ovviamente non ne comprenda l’infinita intellegibilità. Solo che in tal caso è legittimato a parlare di Dio sensatamente senza contraddizioni e senza darsi la zappa sui piedi.
Che poi si debba tacere quando il concetto vien meno o non sappiamo esprimere in parole quello concepiamo o vediamo o sentiamo o sperimentiamo nel fuoco della carità, d’accordo. Ma ciò non vuol dire affatto che il mistico cristiano abbandoni o superi i concetti o sospenda l’attività intellettuale per sperimentare Dio e tanto meno per scoprire di essere Dio o per diventare Dio o l’Assoluto.
San Tommaso parla bensì di un’esperienza mistica di Dio, ma precisa che questo contatto diretto con Dio non è opera dell’intelletto, che fa uso dei concetti di fede, ma dipende dalla carità, come dice l’Aquinate: «caritas est de eo quod iam habetur». Dio lo vedremo un giorno in paradiso, ma con la carità lo possediamo fin da adesso.
Il pensiero si definisce proprio in relazione all’essere ad esso esterno, essere, che è la prima ed originaria nozione della mente. La nozione stessa del pensiero dice rappresentazione del reale esterno alla mente e immanenza del pensiero nella mente. «Non è la pietra che è nell’anima – già diceva Aristotele -, ma è l’immagine della pietra».
Nella vita presente noi possiamo acquistare il pensiero divino – il pensiero di Cristo - solo nei concetti della fede. La credenza che possiamo possedere un nostro pensare divino riflesso, inconscio, atematico, globale, preconcettuale più radicale e originario è una pura illusione per nulla consona a quanto ci insegnano la Sacra Scrittura e il Magistero della Chiesa.
Ritorna la solita confusione idealistica fra l’essere e l’essere pensato.
Immagine da Internet: Aristotele[1] Oltre Dio ovvero omnia in omnibus. Pensieri su Dio, il divino, la deità, Giorgio Barghigiani Editore, Bologna 2000, pp.100-101.
[2] Vedi il mio libro Il silenzio della parola. Le mistiche a confronto, Edizioni ESD, c. IV, Bologna 2002.
[3] Philosophia, op. cit., p. 79
[4]Ibid., p.69.
[5] Nuovi saggi op.cit., p.193.
[6] Ibid.
[7] Ibid.
[8] Ibid., p.9.
[9] P.109.
[10] P.10.
[11] P.11.
[12] Ibid.
[13] Ibid., 54-55.
[14] Oltre Dio, op. cit., p.92.
[15] Ibid.
[16] Oltre Dio, op.cit., p.92.
[17] Philosophia, op.cit., p. 56.
[18] L’intelligenza della fede, Edizioni ESD, Bologna 2012, p.114.
[19] Philosophia, op. cit., ibid.
[20] Ibid., p.11.
[21] Ibid., p.12.
[22] Edizioni Cantagalli, Siena 2003.
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