Da Cartesio a Fichte
La confusione fra l’io umano e l’io divino
Parte Seconda (2/4)
La problematica cartesiana
Notiamo a questo punto che avendo Cartesio raggiunto, come conseguenza del cogito, la convinzione di esistere egli soltanto, egli si vede obbligato a dimostrare, in base al cogito, l’esistenza di tutto ciò che non è lui ed è fuori di lui, cosicchè per dimostrare l’esistenza di Dio, invece di seguire il normale procedimento induttivo di passare dagli effetti creati alla causa prima creatrice, ricorre ad una supposta idea innata di Dio. Dopodiché dimostra l’esistenza della realtà esterna in forza della veracità divina che gli garantisce che le idee sono conformi alle cose.
Sono evidenti il capovolgimento del processo conoscitivo e il circolo vizioso: per dimostrare che Dio esiste parte dall’idea di Dio, la quale suppone che già si sappia che Dio esiste. Sono solo gli angeli che hanno l’idea di Dio infusa da Dio nella loro mente. Noi ricaviamo l’idea di Dio per induzione, per negazione, per analogia e per eminenza dall’esperienza delle cose.
È bene comunque dire che il bisogno che ha Cartesio di un sapere certo e di trovare il metodo per conquistarlo è più che legittimo. Egli tuttavia, invece di mettersi prudentemente e docilmente alla scuola di Aristotele, come fanno tutti i veri saggi e filosofi traendone immenso vantaggio, quell’Aristotele che certamente gli era stato insegnato ed egli aveva imparato al Collegio, pretende di confutarlo e di trovare un altro e più radicale principio del sapere, migliore di quello scoperto da Aristotele, che era il principio di identità, che è il principio dell’essere e del reale e il principio di non-contraddizione, che, per conseguenza, è il principio del pensare, del dire e del parlare, cosicchè come nell’ordine dell’essere dalla prima causa sorgono gli effetti, così nel sapere dal primo principio, l’intuizione dell’essere astratto dall’esperienza, sorgono le conseguenze e conclusioni dei raziocinii e quindi la scienza.
Come mai tutti i dubbi di Cartesio dopo aver frequentato quell’illustre e prestigioso Collegio approvato dalla Chiesa? Gli insegnanti non erano tomisti? Non aveva capito ciò che gli era stato insegnato? Come mai non ne afferrò il valore scientifico? Poca intelligenza? Eppure Cartesio non manca di intuizione e sa anche ben ragionare.
Ripugnanza nei confronti del realismo? Desiderio di fare l’originale e di farsi notare? Accondiscendenza al clima di scetticismo allora diffuso? Poca attenzione critica a ciò che gli era stato insegnato? Se, come dice, lo aveva appreso, come mai non ne fu persuaso? Cartesio non è capace di confutare la gnoseologia e la metafisica di Aristotele, perché esse sono ben fondate in ragione. Di quale ragione parla dunque Cartesio quando pretende di confutare Aristotele e il realismo naturale della ragione?
Gli errori di Cartesio
Osserviamo allora, contro Cartesio, che chi ama sinceramente la verità non disprezza l’esperienza sensibile, si assoggetta all’autorità del prossimo e di Dio, non respinge l’opinabile come falso, ma apprezza e cerca anche in esso un barlume o parvenza di verità e non risolve i dubbi con la forza dopo aver messo in dubbio ciò che è evidente.
Cartesio è più interessato alle proprie idee che alla realtà. Se respinge una realtà oscura e preferisce le proprie idee chiare, vuol dire che non ama la verità. Chi ama la verità accetta per vere anche quelle cose circa le quali sa che c’è il perché, ma non lo conosce. Accetta per vere anche quelle cose che sa o ha scoperto un altro e non lui. Respinge solo ciò che è contradditorio, perchè impossibile.
Nel suo famoso Discorso sul metodo Cartesio racconta di aver studiato «in una della più celebri scuole d’Europa»[1], il Collegio di La Flèche, tenuto dai Gesuiti, dichiarando di aver colà «imparato tutto ciò che gli altri v’imparavano»[2]. Passa poi a definire la filosofia e la teologia che colà aveva studiato, dicendo della prima che «essa dà il mezzo per parlare con verosimiglianza di tutte le cose e di farsi ammirare dai meno dotti»[3]. Ma è questa veramente la filosofia o non piuttosto è la sofistica?
Quanto alla teologia, secondo Cartesio essa «insegna a guadagnare il cielo»[4] . Ma questa semmai è la direzione spirituale. La teologia è la scienza delle deduzioni che si ricavano dal dato rivelato mediante l’uso della filosofia alla luce della fede.
Cartesio afferma di «non osare di sottomettere alla debolezza dei suoi ragionamenti le verità rivelate»[5], salvo poi a smentirsi poche pagine dopo col sostenere che la ragione si arrende solo all’evidenza e alla dimostrazione e ammettendo come vere solo le idee chiare e distinte, mentre è noto che i misteri della fede sono oscuri e confusi.
È indubbio in Cartesio, accanto al problema del metodo del sapere, che lo portò a scrivere il Discorso sul metodo, l’interesse per la metafisica, che lo portò a scrivere le Meditazioni metafisiche. Egli ebbe due interessi di fondo: primo, come trovare la verità e la certezza del sapere e come fondare ed edificare la scienza; e, secondo, determinare l’oggetto universale del sapere umano. Ma dobbiamo dire che l’oggetto della metafisica non è la mia esistenza.
È più che evidente che se penso, esisto. In questa constatazione di Cartesio non c’è nulla da dire. Qualcosa del genere l’aveva già detta Sant’Agostino nel corso della sua polemica con gli scettici accademici che sostenevano che nulla è certo e che la verità non esiste. Agostino rispondeva; «si fallor, sum». Anche se sono nell’errore, sono quanto meno certo di esistere.
Ma Agostino si manteneva umilmente nel rispetto della verità delle cose esterne, la cui considerazione utilizzava per dimostrare l’esistenza di Dio, mentre Cartesio con la pretesa di partire da se stesso, dava all’io un’importanza sproporzionata, che conteneva i germi dell’io panteistico fichtiano.
Alcuni infatti fecero notare a Cartesio il precedente di Agostino. Ma Cartesio prese le distanze, sottolineando la sua originalità. Infatti Agostino considerava il suo esistere come un presupposto al suo pensare, mentre Cartesio precisò che l’«ergo» del cogito, ergo sum non andava inteso come conclusione di un sillogismo: ogni pensante esiste - ma io sono pensante - dunque esisto, ma il sum risulta essere immediatamente dipendente dal cogito, quasi a dire: cogito-sum.
Alcuni obiettano: ma in fin dei conti, che bisogno o che ragione c’è di escludere il metodo cartesiano in nome di Aristotele? Che entriamo in noi stessi o che guardiamo fuori, l’importante è trovare la verità. Se invece di volgere lo sguardo alle cose o agli enti e quindi all’ente come fa Aristotele, noi innalziamo lo sguardo alle idee che sono in noi, ai modelli delle cose, a ciò che troviamo nella nostra coscienza, se guardiamo al nostro stesso io, perché mai non dovrebbe anche questa essere una via alla verità e forse anche migliore, giacchè se Aristotele ci apre alle cose esterne materiali, con Cartesio saliamo immediatamente a quelle spirituali? Ma Il fatto è che, come ho detto, l’idea platonica non è esattamente ciò che Cartesio intende per «idea». E c’è anche da chiedersi se la res cogitans cartesiana è veramente la sostanza spirituale, è veramente la mente, se Cartesio la ricava da un pensare che è un dubitare?
Cartesio sa veramente che cosa è il pensiero? Sa veramente che cosa significhi pensare alle cose? Lo sa che noi possiamo pensare solo dopo aver percepito le cose esterne, astraendo l’universale dal particolare colto dal senso?
Quanto a Platone, si sa che è effettivamente diffidente nei confronti della sensibilità materiale, ma non gli viene assolutamente in mente di chiedersi se le cose sensibili esistano o non esistano. Certo egli fatica ad accettare il divenire perché gli sembra un essere che non è. Non conosce la distinzione aristotelica fra potenza ed atto. Ma alla fine Platone riesce a trovare la verità delle cose materiali come immagini, partecipazioni e imitazioni delle idee.
Invece Cartesio chiama idee delle entità mentali che si presentano come rappresentazioni di cose esterne, ma circa le quali non sappiamo se effettivamente queste idee le rappresentano ed anzi non sappiamo neppure se esistono cose esterne, perché l’oggetto immediato della ragione sono le idee. Noi diamo per scontato che esistano cose esterne; ma ciò, secondo Cartesio, va dimostrato. Con ciò Cartesio crede di essere più radicale di Aristotele e Platone, i quali non avevano dubbi circa l’esistenza di cose esterne.
Anche l’idealismo platonico è sostanzialmente un realismo, perchè l’idea è to pantelòs on, l’ente in senso pieno. In Platone l’idea umana (eikòn) è rappresentazione dell’idea divina (eidos). Né in Platone né in Aristotele c’è alcuna riduzione dell’essere al pensiero, e nessuna entificazione o reificazione del concetto come avverrà nell’idealismo postcartesiano.
Allora si capisce che mentre per Platone l’idea è la realtà che ci trascende, illumina la nostra mente e dà consistenza al nostro esistere, per Cartesio le nostre idee sono semplici contenuti della nostra autocoscienza, la quale è il principio della verità e del sapere. Così mentre per Platone la nostra mente è soggetta all’idea, imita l’idea e partecipa dell’idea, che è un essere principio di essere e di conoscere, per Cartesio la nostra mente, l’io penso diventa fondatore dell’ideale e del reale. Da qui la conseguenza che se il platonismo può introdurre alla religione e alla morale, come è stato riconosciuto dai Padri e da Sant’Agostino, l’egocentrismo cartesiano conduce o all’ateismo o al panteismo, come avverrà con i suoi sviluppi nell’idealismo tedesco e nel marxismo.
Da Cartesio prenderà spunto Fichte per eliminare la cosa in sé e sostituirla con il non-io e quindi identificare l’essere col pensare e con l’intendere, e confondere addirittura l’essere col fare e con l’agire, sicchè pensare è fare e l’intendere viene confuso col volere. Cartesio non era giunto a tanto, ma Fichte non sbagliò nell’intuire questa possibile interpretazione del cogito, che, posto non da necessità oggettiva, ma da decisione soggettiva, è in fin dei conti, come ha osservato il Padre Fabro, un volo, un atto di libertà. Conoscere è imporre al reale la propria forma e insegnare è imporre agli altri le proprie idee.
Osserviamo però che in realtà il principio del nostro sapere non coincide col principio dell’essere. Il principio del sapere è l’intuizione umana dell’essere, per cui si va dalle cose a Dio. Il principio dell’essere è Dio, per cui le cose sono posteriori a Dio.
Osserviamo inoltre a Cartesio che l’oggetto della metafisica è l’ente come tale, non interessa che sia io o siano gli altri, sia l’ente materiale o quello spirituale, finito o infinito. L’io non è oggetto della metafisica, ma della cura di se stesso e della riflessione morale, dell’esame di coscienza e della narrazione autobiografica, che nulla hanno a che vedere con la fondazione o il metodo del sapere e della certezza.
Osserviamo inoltre, che se io penso, è chiaro che esisto. Ma questo io è semplicemente un io umano, il mio io di Giovanni Cavalcoli, limitato, misero, particolare e contingente, con predicati che gli si aggiungono e lo determinano. Non è un io sono senza predicati. Non è quindi da confondere, con l’Io Sono di Es 3.14, che Dio solo può pronunciare di Se stesso.
Oltre a ciò, quell’ego sum di Cartesio – non dimentichiamolo - è un ego dubito. Infatti Cartesio dice «io penso», ma non ci dice a che cosa pensa. Un pensare senza oggetto. Ma la mancanza di oggetto è propria del dubitare, che è un’oscillazione fra due oggetti. Si potrebbe osservare allora: se dubito, come faccio a sapere che esisto?
Anche con la certezza di dubitare non risolve nulla, e Cartesio non esce dal dubbio, se egli non pensa qualcosa. Ma Cartesio non rinuncia al suo dubbio universale. Dunque egli è certo di esistere perché risolve il dubbio con la forza: il suo intelletto non è avvinto dalla verità, non si arrende alla verità, che sarebbe il sapere di esistere, ma l’intelletto è costretto dalla volontà ad aderire come a vero a ciò di cui invece dubita. Il dubbio non è risolto per l’apparire della verità, ma perché la volontà obbliga l’intelletto a scegliere l’esistere e a scartare il non esistere. Cartesio non fonda la libertà sulla verità, ma la verità sulla libertà.
C’è da notare inoltre che quando Cartesio, dopo il cogito si chiede chi egli è, respinge la definizione «animale ragionevole», e afferma di essere uno spirito o una mente, una sostanza pensante, una res cogitans. Non si accorge che se è arrivato a scoprirsi come spirito, è perché è partito dall’esperienza dei sensi e quindi dall’uso della sua animalità.
Inoltre Cartesio, nel concepirsi come sostanza pensante, dimentica che l’atto del pensare in noi non costituisce la nostra essenza – questo vale solo per Dio -, ma è atto della potenza intellettuale soggettata nell’anima come forma sostanziale del corpo. Evidentemente ha dimenticato che la dottrina dell’anima come forma sostanziale del corpo è dogma di fede.
Ci si potrebbe chiedere se il cartesianismo, con tutta la sua esaltazione della ragione, il suo bisogno di andare alle cause e il suo apparente bisogno di incontradditorietà, alla fine non nasconda l’irrazionalismo. Non è infatti ragionevole dare alla ragione il potere esagerato che Cartesio le assegna. Dobbiamo dire allora che il ragionare di Cartesio, nei momenti decisivi della fondazione della certezza e del sapere, è sofistico.
Infatti, non è forse irrazionale mettere in dubbio ciò che è evidente? Dichiarare senz’altro falso ciò che è incerto, opinabile o probabile? Non è forse assurda ed empia l’ipotesi del genio maligno? Dubitare della veracità dei sensi? Esercitare seriamente un dubbio universale senza vederne l’assurdità? Dare per evidente ciò che è da dimostrare? Porre l’autocoscienza come condizione di possibilità della conoscenza delle cose, anziché porre la conoscenza delle cose come condizione per l’attuazione dell’autocoscienza? Voler dimostrare l’esistenza di Dio citando la causalità divina sul nostro pensiero prima di aver dimostrato che Dio esiste partendo dalle cose esterne? Ora, come è noto, tutte queste sono le posizioni di Cartesio.
Il dubbio cartesiano non è un vero dubbio metodico, non è un dubbio come via alla verità. Non è quindi il dubbio sincero di chi desidera e cerca la verità, perchè non riguarda ciò che è ragionevolmente dubitabile, per verificare dove sta la verità, ma è un dubbio immotivato, forzato e irragionevole, che nasconde la volontà di decidere noi della verità non in base alla vista o all’esperienza delle cose che ci stanno davanti nel loro essere, ma decidere che cosa sono in base alla nostra volontà, come se la loro esistenza ed essenza dipendesse da noi. Non le riconosciamo come sono; non adeguiamo il nostro pensiero al loro essere, ma fingiamo che siano come vorremmo che fossero.
E questa è disonestà e slealtà nel pensare. Non siamo nella verità, ma nella falsità. Infatti non sta a noi ma a Dio stabilire e determinare la realtà e la verità delle cose. Se invece pretendiamo di esser noi a compiere questo atto o pretendiamo di raggiungere questo potere, ci sostituiamo a Dio e cadiamo nell’ateismo o nel panteismo o nel nichilismo.
Non bisogna confondere l’elevazione dello spirito con l’autoesaltazione, l’interiorità con l’egocentrismo, la riflessione con l’autoreferenzialità, la coscienza con il ripiegamento su di sè, l’entrare in noi stessi con la chiusura alla realtà esterna, l’essere reale con l’essere pensato, l’altruismo con l’esibizionismo.
Non dimentichiamo che il nostro pensiero è trasceso dall’essere; esso si nutre dell’essere e non lo produce lui, così come il bisogno di alimentarsi non produce il cibo, ma lo presuppone. Come notava argutamente Maritain, noi non mangiamo il mangiato, ma mangiamo il pane, nello stesso modo in cui non pensiamo il pensato, ma pensiamo l’essere, il quale è pensabile e non pensato prima di essere pensato. Per questo, come diceva il saggio Aristotele, la nostra anima all’inizio, ben lungi dal possedere l’autocoscienza, è una tavoletta nella quale nulla c’è scritto.
Se possiamo e dobbiamo pensare il pensato, è perché prima abbiamo pensato l’essere. Noi non siamo una res cogitans, ma una res quae potest cogitare, perchè l’uomo resta uomo, anche se non pensa. Solo Dio è una, anzi l’unica res cogitans per essenza, nòesis noèseos, come diceva Aristotele.
Ricordiamo anche che il vero amante della verità non è solo il ragionatore, che si arrende solo all’evidenza o alla dimostrazione, ma anche il credente, che accetta da altri la verità. La vita sociale sarebbe impossibile, se non credessimo gli uni agli altri.
La scoperta della verità non dev’esser sempre necessariamente opera della nostra ragione, ma ci può esser comunicata anche dall’ascolto di un maestro o di un’autorità. E quale Maestro più qualificato di Dio stesso? E comunque è vero che la nostra ragione ha anche qui il compito di vagliare le prove di credibilità.
Ora la pretesa della ragione cartesiana di accettare per vero solo quello che le è evidente e dimostrabile, nonché chiaro e distinto, è una pretesa eccessiva e irragionevole, perché impedisce o spegne quell’atto di fede divina che è l’accettazione di una verità oscura e indistinta, inevidente e indimostrabile, se non per motivi di convenienza o congruenza. Il cartesianismo o fa perdere la fede o impedisce di acquistare la fede o crea una fede finta e farisaica.
Volendo dare un giudizio complessivo sull’opera di Cartesio bisogna dire che egli ha rovesciato l’ordine del sapere. Ma le conseguenze di ciò non appaiono immediatamente. Vengono esplicitate da quei filosofi che si interrogheranno sul significato ultimo dell’io cartesiano.
Cartesio sembra recuperare, ritrovare e rifondare il realismo, l’apertura al mondo esterno, su di una base più solida, che dovrebbe essere il suo idealismo, ossia la sua concezione assolutistica dell’io, del proprio pensare e del proprio essere. Ma questo non è un vero realismo, non è un realismo sincero, perchè un realismo del genere non conduce affatto al vero fondamento della realtà, cioè non conduce affatto al Dio creatore del cielo e della terra, ma ad idolatrare il proprio misero io come fosse Dio.
Il cattolicesimo di Cartesio non nasce da un’intima e ragionata convinzione interiore, non ha alcuna base nella sua filosofia, ma è solo una scelta di convenienza, un espediente per rendersi accetto in quella Chiesa che egli con le sue idee distruggeva dall’interno. Il motto «larvatus prodeo», che a lui piaceva è un ritratto della sua ipocrisia.
L’umanesimo di Cartesio non è quello dell’uomo che scopre di essere creato da Dio, ma è lo sviluppo dell’umanesimo antropocentrico rinascimentale di Giordano Bruno dell’uomo che ha il potere magico e gnostico di diventare Dio; è un’esplicitazione dell’umanesimo luterano del Dio-in-me e per-me o della filosofia indiana dell’uomo che scopre di essere Dio.
Nel cartesianismo, come apparirà chiaramente in Fichte, non è più Dio che crea l’uomo, ma è l’io come io assoluto, che pone se stesso, per cui è l’uomo che crea Dio e si fa Dio. Osservo che come Dio essendo se stesso, pone le cose, così il cartesiano non afferma se stesso per aver posto le cose, ma pone le cose perchè ha posto se stesso. Occorre osservare che per costruire la scienza si parte da ciò che è evidente e sulla sua base si mostra o dimostra il fondamento e il perché di ciò che non è evidente o è derivato. Invece Cartesio respinge irragionevolmente il punto di partenza empirico del sapere e pretende di partire da quell’autocoscienza alla quale arriviamo solo partendo dall’esperienza delle cose.
Il principio primo e la conclusione ultima del cartesianismo appariranno nella loro pienezza insuperabile al di là di Kant, di Fichte e di Schelling, in Hegel. Infatti in Fichte l’io umano nella sua finitezza si avvicina infinitamente all’Io divino infinito, ma non lo raggiunge mai e resta sempre distinto. In tal senso il fichtismo non è un panteismo compiuto come era quello di Spinoza e sarà quello di Hegel e di Schelling, benchè l’io fichtiano sia il sum cartesiano che si confonde con l’Ego sum biblico.
In Schelling invece tutto s‘identifica con tutto: l’essere col volere, il finito con l’infinito, il soggetto con l’oggetto, il reale con l’ideale, l’identico col differente, la natura con lo spirito, l’uno coi molti, tutto con tutto, tutto col Tutto.
Per il cartesiano Fichte esisto solo io come relativo al mio Io assoluto. Tuttavia l’io per Fichte è di per sé assoluto, per cui io sono l’Assoluto. Ma ciò, come abbiamo visto, non avviene con una piena identificazione, come sarà per Schelling, perché Fichte tiene alla distinzione fra il finito e l’infinito.
Comunque anche da Fichte si può ricavare il panteismo, come ha fatto Schelling, il quale ha capito che già in Fichte si poteva trovare benissimo il principio caro a Schelling per cui io sono l’Uno, sono tutto e sono il Tutto. Si può ben comprendere quindi che Fichte sia stato accusato di ateismo, giacchè, se io sono l’Assoluto, che bisogno ho di Dio? Tutto parte da me, tutto si fonda su di me e tutto torna a me. Tuttavia davanti all’io degli idealisti potremmo chiederci: che ne è del tu? Che ne è dell’altro? Del diverso? Ti completa o basti a te stesso? Da dove viene? Che ne è del tuo prossimo e di Dio?
Il sum di Cartesio lascia aperto questo problema: gli altri esistono per conto loro indipendentemente da me e fuori di me o ne deduco l’esistenza dalla mia autocoscienza? O esistono in quanto pensati da me? Il loro essere coincide col mio percepirli o l’esser percepiti da me? Il cartesiano non ha un interlocutore, non si relaziona realmente con un’altra persona, ma solo con persone il cui essere si risolve nell’essere pensate da lui. Che differenza fa allora tra persone reali e persone immaginarie? Tra Gesù Cristo ed Aristotele da una parte e dall’altra Ermete Trismegisto, Mercurio, Prometeo od Apollo?
Fine Seconda Parte (2/4)
P. Giovanni Cavalcoli
Fontanellato, 31 agosto 2025
Il fatto è che Cartesio, nonostante il suo apparente impegno nel ragionare, non ha un concetto giusto di ragione. Una ragione come quella di Cartesio, che funziona autonomamente o «a priori» senza essere fondata sull’esperienza sensibile non esiste. O sembra una brutta copia dell’intelletto angelico.
L’interiorismo
agostiniano può apparir simile all’idealismo cartesiano, perché in entrambi
vediamo un moto riflessivo dell’intelletto dall’esterno all’interno. Tuttavia
mentre in Agostino io, una volta entrato in me stesso, trovo nella mia
coscienza e mi commisuro con una verità suprema, assoluta e sussistente, altra
da me, che mi precede … per Cartesio non è più l’uomo, non è più la nostra
mente che si adegua al dato oggettivo e al divino presente in lei, ma è l’uomo
che sostituisce Dio nel far da regola e misura dell’essere delle cose.
Fichte non sbagliò nell’intuire questa possibile interpretazione del cogito, che, posto non da necessità oggettiva, ma da decisione soggettiva, è in fin dei conti, come ha osservato il Padre Fabro, un volo, un atto di libertà. Conoscere è imporre al reale la propria forma e insegnare è imporre agli altri le proprie idee. Cartesio non fonda la libertà sulla verità, ma la verità sulla libertà.
Così Cartesio, invece di orientare il pensiero verso l’essere esterno all’anima, lo ha orientato verso se stesso. Invece di orientare l’uomo verso Dio, lo ha orientato verso se stesso. E – come osserva acutamente il Padre Fabro – siccome noi da noi stessi siamo nulla, lo ha orientato verso il nulla.
Buongiorno Padre, lei scrive nella Parte Prima che “Cartesio conserva dal realismo l’esistenza di Dio fuori dell’anima” e poi nella Parte Seconda “per Cartesio la nostra mente, l’io penso diventa fondatore dell’ideale e del reale”. Le domando: il mondo per Cartesio è creato quindi dal pensiero umano (Io penso) o dal pensiero divino? La ringrazio nuovamente e nuovamente saluto. Francesco Orsi
RispondiEliminaCaro Francesco,
Eliminail pensiero di Cartesio, nel suo sviluppo, passa attraverso tre momenti di carattere dialettico:
Primo: è la posizione della realtà esterna, che egli nega mediante il dubbio.
Secondo: è la posizione del cogito, che è all’origine dell’idealismo moderno.
Terzo: è la riproposizione del realismo iniziale sulla base del cogito.
Tenendo presente questi tre momenti, è possibile rispondere alla sua domanda. Nel primo momento Dio è posto come esterno all’io. In secondo momento nega il realismo e lo sostituisce con l’idealismo, per cui Dio è immanente all’io. Nel terzo momento Cartesio ripropone il realismo iniziale, nella convinzione di averlo fondato sul cogito.
Ma il risultato complessivo nella storia della filosofia è stato quello di far sì che coloro che hanno accolto Cartesio, come Kant e Fichte, abbiano immanentizzato nell’io la realtà divina, fino a raggiungere l’identificazione del pensiero con l’essere in Hegel e Gentile.
In conclusione il risultato finale è che Dio diventa il prodotto del pensiero umano divinizzato. E questo è il panteismo.
Alla domanda se il mondo per Cartesio è creato da Dio o dal pensiero umano, rispondo dicendo che in Cartesio troviamo sia il realismo del Dio creatore che l’idealismo del pensiero umano divinizzato, che pone Dio e il creato. Il fondo del pensiero cartesiano è idealistico.
Il realismo è una aggiunta di convenienza, per evitare l’intervento dell’Inquisizione. Si tratta di una forma di fariseismo, dove il soggetto finge di essere realista, ma in realtà è idealista.
A tal riguardo abbiamo una misteriosa confessione di Cartesio, del 1619, dove egli dichiara di procedere mascherato (larvatus prodeo).