Che cosa è il nichilismo? - Quarta Parte (4/5)

 

Che cosa è il nichilismo?

Quarta Parte (4/5)

 

La metafisica di Barzaghi

Barzaghi dà il primato al pensiero sull’essere e quindi dell’ideale (o dell’«esemplare», come egli dice) sul reale, mostrandosi nella linea dell’idealismo di Cartesio, Hegel e di Gentile, che gli fu mediato dal suo maestro Bontadini. Il pensiero lo chiama «intero» e il reale «totalità». Il pensiero è inteso come una forma che riceve il contenuto, cioè l’essere, che è inteso come essere pensato; da cui l’identità di pensiero ed essere. Dice, seguendo Bontadini:

«L’Intero non è la Totalità del reale; l’Intero è l’ambito entro cui si indaga intorno alla totalità del reale, in cui si pone l’idea di questa totalità e il relativo problema. Sinonimo di Intero sono “implesso originario”, “struttura originaria”, “orizzonte circonfondente”, “ordine teoretico”, “atto del pensiero”»[1]. L’essere è inteso come pensiero autocosciente sussistente avente per oggetto l’essere come essere pensato.

In un contesto cristologico, egli chiama questo Intero il «Disegno» (protheis) del Padre, del quale parla San Paolo in Ef 2,11, dove il termine significa «divisamento, intenzione, progetto, proposito». Si tratta del Verbo o Logos divino, l’Idea o Modello, secondo il quale il Padre ha ideato e voluto il mondo, è il Figlio, per quem omnia facta sunt (Gv 1, 2-3), secondo il quale Dio ha creato e redento il mondo. Occorre tener presente però che il Logos procede dal Padre, che è l’Essere sussistente, secondo il suggerimento agostiniano di far corrispondere l’esse-nosse-velle alle Tre Persone della Trinità. Quindi, come suggerisce lo stesso Mistero Trinitario, è l’essere (la monarchia del Padre) ad essere il principio del pensiero e non viceversa.

Notiamo inoltre che il riferimento metafisico fondamentale di Barzaghi, come quello di Severino e di Bontadini non è l’ente analogico, uno e molteplice di Aristotele e della Scrittura, ma è l’essere parmenideo, l’unotutto. L’essere è l’essere divino e assoluto. Non c’è quindi distinzione fra essere necessario ed essere contingente. L’essere è solo l’essere necessario, che non può non essere. La conseguenza che ne trae è che l’unico ente esistente è Dio. Dio, egli dice, non è il sommo, ma è l’unico.

La distinzione tra essere necessario ed essere contingente è respinta come «dualismo» perché nega l’unotutto, concetto di origine parmenidea che era stato già sviluppato da Vladimir Soloviev, concetto che egli designa col termine russo vseedinstvo[2]. In questa visuale si confonde la totalità dell’essere col Tutto divino. Così succede che tutte le cose sono Dio. E tutto è in tutto.  Il mondo è Dio[3] e Dio è il mondo. Non si distingue la natura umana dalla natura divina, per cui da qui sorge una cristologia eretica.

In questa visuale l’Assoluto è ad un tempo tutte le cose e in tal senso è l’essere. Ma in quanto non è nulla di determinato e di finito, è nulla. È Tutto e Nulla. Questo concetto riappare in Hegel. È chiara la confusione fra il Tutto divino, che comprende in Sé infinitamente tutte le perfezioni trascendentali con la totalità delle cose e dell’essere[4].

Nel monismo parmenideo di Soloviev, Barzaghi, Severino, Bontadini ed Hegel l’essere è essenzialmente connesso all’apparire perché Dio è concepito come essenzialmente identico al mondo. Si suppone cioè l’uomo al quale Dio appare, risolvendo l’essere nell’apparire, ossia nell’essere pensato dall’uomo, il che equivale all’identificazione dell’essere con l’apparire e con l’essere pensato dall’uomo.

Per questo in questa visuale è inconcepibile un Dio che esista da solo prima della creazione del mondo[5]. Come dice Hegel, «Dio non è Dio senza il mondo». E questo insieme Dio-mondo, al di fuori del quale non c’è nulla, come non c’è nulla al di fuori dell’essere, viene chiamato l’«Intero».

Il vero dualismo non è la nozione analogica dell’essere, ma è nascosto nella nozione univocista e monista di Parmenide, per il fatto che necessario e contingente sono in conflitto tra di loro come essere e non essere, quando invece sono le due modalità fondamentali dell’essere, creato e increato. Nel parmenidismo tutta la realtà viene a possedere un’unica struttura originaria[6], mentre invece in realtà essa, pur possedendo un’unità molteplice, è strutturata secondo la distinzione fra Dio e il mondo, che non sono affatto in contrasto, ma in perfetta comunione ed armonia nell’orizzonte analogico dell’essere.

In tal modo nella metafisica del teologo Domenicano, ispirata a quella di Severino, il finito non è l’ente finito distinto dall’ente infinito, perché per loro l’essere è di per sé infinito e quindi esiste solo l’infinito. Il finito pertanto non è altro che la finitizzazione dell’infinito o, per usare il linguaggio di Severino, l’apparizione finita dell’infinito. Il finito dunque di per sé è nulla. Esiste solo l’infinito. Questo, in un certo senso, lo dice anche San Tommaso: ma egli precisa che di fatto il finito è qualcosa di positivo. La creatura umana ha un’altissima dignità in quanto creata ad immagine e somiglianza di Dio. L’uomo è persona similmente a come Dio è persona. Tuttavia, precisa San Tommaso, questo essere qualcosa di finito, il finito non lo ha da sé, ma da Dio, creatore e donatore dell’essere finito.

In tal modo, per Barzaghi, Dio non crea ponendo ma negando; non crea entificando ma annullando. Non incrementa l’essere, ma lo finitizza. Questa concezione del finito come nulla era già stata espressa da Meister Eckhart e fu condannata da Giovanni XXII nel 1329: «omnes creaturae sunt unum purum nihil; non dico quod sint quid modicum vel aliquid, sed quod sunt unum et purum nihil» (Denz.976).

Ricordiamo anche la proposizione rosminiana condannata: «finita realitas non est, se Deus facit eam esse, addendo infinitae realitati limitationem» (Denz.3212). È lo stesso principio di Spinoza: «omnis determinatio est negatio». Nel creare Dio non incrementa l’essere, ma restringe il proprio.

Il timore degli spinozisti, che Barzaghi fa proprio, è che ponendo il mondo fuori di Dio, questo accresca l’essere divino, il che effettivamente sarebbe assurdo. Ma le cose non vanno così: aumentano gli esseri, ma non l’essere. È chiaro che essendo Dio infinito, l’infinito non può aumentare; essendo Egli Tutto e il Tutto.

Il Tutto non può accrescersi. E si può e si deve certamente dire che il mondo è i in Dio identico a Dio. Ma è anche fuori di Dio, da Lui creato dal nulla. E questo esser fuori di Dio è solo essere per partecipazione. Il mondo sarebbe un altro Dio se concepissimo il suo essere come essere per essenza; invece è finito e creato dal nulla.

Barzaghi inoltre teme che se affianchiamo il relativo all’Assoluto, faremmo dello dell’Assoluto un relativo; l’Assoluto non sarebbe più assoluto e si assolutizzerebbe il relativo, perché, a suo dire, il relativo dovrebbe perfezionare o aumentare l’Assoluto, avere qualcosa che l’Assoluto non ha: l’Assoluto diventerebbe relativo al relativo.

Il relativo, poi, dal canto suo, perderebbe la relazione di dipendenza dall’Assoluto, perché verrebbe ad esistere di per sé, indipendentemente dall’Assoluto. Ma è facile dimostrare come queste aporie possono essere risolte. Innanzitutto il relativo non relativizza affatto l’Assoluto né pretende di superarlo, perché l’essere del relativo non è altro che essere per partecipazione, mentre l’essere dell’Assoluto è essere per essenza, per cui questo è l’essere totale, mentre il relativo è essere parziale.

Quanto poi alla supposta assolutizzazione del relativo, essa non si dà affatto, perché il relativo è essenzialmente dipendente nell’essere dall’Assoluto, perchè il suo essere è creato dal nulla dall’Assoluto.

Sulla base della sua concezione del pensiero, dell’essere e di Dio, poi, ispirandosi a una proposta già fatta dal suo maestro Gustavo Bontadini, propone una cosiddetta «via breve» per dimostrare l’esistenza di Dio, la quale comporterebbe una rigorizzazione del concetto di creazione, liberato da una supposta ipoteca nichilistica[7], e il superamento delle famose cinque vie di San Tommaso.

Egli ha creduto, seguendo Severino, che la concezione tomista dell’essere che comporta la creazione divina dell’essere dal nulla, sia inficiata da un segreto nichilismo, dal quale può e deve essere liberata. Severino, giudicando contradditorio e assurdo il concetto di creazione, lo esclude dal suo sistema. Egli, invece, pensa che sia possibile continuare a parlare di creazione, ma concepita così da liberarla dall’ombra del nichilismo. Egli pensa di poter far ciò ricorrendo alla concezione parmenideo-severiniana dell’essere non come essere analogico, uno-molteplice, polisenso, e partecipativo, ma essere uno, unico, univoco, totale, e infinito.

Per Barzaghi esiste solo Dio, perché, come indica Parmenide, l’essere è uno solo, necessario, eterno, immutabile ed infinito. Ma questa tesi conduce in modo insospettato al nichilismo, per il fatto che egli, seguendo Parmenide attraverso Severino, afferma che esiste solo l’essere che non può non essere, per cui è costretto a negare l’esistenza dell’essere che può non essere, cioè del contingente, ovvero dell’ente finito e creato dal nulla da Dio.

Ora è chiaro che se noi neghiamo l’esistenza del contingente, ossia del mondo e delle cose che divengono e mutano, noi per conseguenza non abbiamo più la possibilità di sapere che Dio esiste, anzi dovremo logicamente concludere che Dio non esiste. In altre parole, il nichilismo riferito al mondo porta come conseguenza il nichilismo teologico ossia l’ateismo, sicchè alla fine dovremo concludere che non esiste assolutamente nulla, né il mondo né Dio o al massimo esistiamo solo noi.

Il Concilio di Firenze del 1442 dice che «in Dio tutto è uno». Non dice tutto è uno. Dire così vuol dire confondere tutto con tutto. È l’accusa che già Aristotele faceva a Parmenide. Se tutto è tutto, e ogni ente è ogni altro ente, togliamo le distinzioni, le diversità e le differenze. Ma Dio e gli enti sono enti determinati, distinti e differenti fra di loro. L’uno non è l’altro.

Se dall’ente togliamo la determinatezza o la sua irripetibile singolarità o identità che lo distingue dagli altri, sia esso finito o infinito, lo riduciamo a nulla: abbiamo il nichilismo. L’ente non esiste se non come determinato, sia esso Dio o sia la creatura. Quindi dire che tutto è uno porta al nichilismo.

Diverso invece e verissimo è dire che Dio è in tutte le cose, che tutte in lui sussistono e che in Dio tutto è uno, perché Egli, Essere perfettissimo che attua in Sé la totalità dell’essere, ottimo e massimo, è l’insieme unito di tutte le perfezioni nell’unità semplicissima della sua essenza, per cui Egli contiene in Se stesso tutto e ogni cosa, prima che esista fuori di Lui, contiene virtualmente nella sua essenza onnipotente, ogni cosa identica alla sua essenza, essenza divina che è identità assoluta di essere, pensiero e volontà, come la causa precontiene eminentemente in se stessa l’effetto.

E invece Barzaghi trae in teologia, che egli chiama «teologia anagogica», ricavata dalla falsificazione severiniana della metafisica di San Tommaso, le conseguenze di questo monismo confusionario, che alla fine, mancando le differenze, non distingue più l’essere dal non-essere.

Così per lui, col pretesto di porsi «dal punto di vista di Dio», Dio, creazione, Incarnazione del Verbo, Redenzione di Cristo, mondo costituiscono il «Cristo cosmico» o «cristocentrismo». Ora è vero, come insegna San Paolo, che Cristo è è il Principio, il Disegno l’Exemplar, o Idea o Logos del Padre, in base al quale il Padre ha ideato, voluto, creato e salvato il mondo; è vero che Cristo per volontà del Padre nello Spirito è al centro del cosmo ed è il Fine verso cui il cosmo tende e in vista di cui Dio l’ha creato. Ma ciò non autorizza a identificare la creazione con la generazione e con la redenzione, la natura e la grazia, l’uomo con Dio, e Cristo col cosmo. La cristologia di Barzaghi è una cristologia panteista, che si può ricondurre alla cristologia di Scoto Eriugena, Eckhart, di Schelling, di Hegel e di Soloviev, che discende logicamente dalla sua gnoseologia e metafisica idealista.

Un’interpretazione idealista di San Tommaso

In sostanza Barzaghi dà un’interpretazione idealistica di San Tommaso, come hanno già fatto i rahneriani, con la differenza che il suo panteismo è di tipo eternalista, ispirato a Severino, mentre quello modernista dei rahneriani è storicista, ispirato ad Hegel.

Tuttavia in fin dei conti tra Severino ed Hegel non c’è una gran differenza, ma anzi l’uno richiama all’altro, perchè se per Severino l’eterno appare nel divenire, per Hegel il divenire è l’eterno. Per Barzaghi Dio è immutabile perché tutto è immutabile; per un rahneriano Dio muta perché l’essere è divenire.  

Parmenide ed Eraclito non sono così opposti quanto a tutta prima può sembrare, ma si richiamano a vicenda. Ed entrambi nascondono il nichilismo: Parmenide per negare il diveniente e il molteplice; Eraclito per negare l’eterno e l’immutabile. Viceversa, accusare di nichilismo Tommaso e la formula dogmatica è un’accusa empia. Un concetto di creazione che rifiuti l’ex nihilo, oltre ad essere metafisicamente assurdo, panteista e nichilistico, è eretico.

Postorino ha pubblicato nel 2017 su Sacra Doctrina un lungo articolo[8] col quale tratta in modo farraginoso e disordinato del pensiero del teologo Domenicano circa il supposto nichilismo che si nasconderebbe sotto la formula dogmatica creatio ex nihilo, rifacendosi a due articoli, uno del Domenicano e l’altro dello stesso Postorino[9].

Per ottenere questo scopo, cioè per fare in modo che il concetto di creazione non sia contradditorio e nichilistico, Barzaghi propone di sostituire l’essere parmenideo adottato da Severino, ossia la concezione dell’essere come essere unico che non può non essere, all’essere analogico e partecipativo tomistico che comporta la distinzione fra l’effetto e la causa e tra il necessario e il contingente.

L’essere che può non essere, l’essere che inizia e finisce per lui è impossibile. Gli enti che noi diciamo divenienti, temporali e contingenti non sono altro che apparizioni finite, molteplici e successive dell’unico essere che è Dio. Dio nel creare non pone un ente finito, ma determina il finito negando finitamente e parzialmente la sua infinità.

Inoltre cade nello stesso errore di Severino che ho già segnalato, di negare l’essenza del nulla per il fatto che esso è un non-essere. Dice:

«le cose sono strutturalmente protette, perché nulla può toccarle. Solo il nulla può toccare o corrompere le cose, ma il nulla è appunto nulla, il non essere, non c’è!»[10]. 

In base a questa convinzione che il nulla non esiste egli vuole togliere il riferimento al nulla dal concetto di creazione, per cui il creare non è più un produrre divino la creatura dal nulla, ma una teofania e un apparire finito di Dio[11].

Egli non comprende che se noi sappiamo che cosa è il nulla, ne parliamo e c’intendiamo quando ne parliamo facendo uso del termine, vuol dire che esso non è privo di senso. Questo vuol dire che abbiamo nella nostra mente un oggetto intellegibile, appunto il nulla, il quale pertanto ha un’esistenza, certo non extramentale ma intramentale come ente di ragione.

In questo senso il nulla esiste. E non è vero che noi non possiamo annientare o distruggere nulla. Il peccato che cosa fa? L’omicidio che cos’è? La menzogna che cos’è? Non siamo noi con la nostra volontà degli annullatori? O vogliamo confondere il male col bene? E poi osiamo combattere il nichilismo? Che cosa sono questi atti, se non un impedire di essere a qualcuno o a qualcosa che ne ha diritto? Non possiamo forse annullare un impegno? Annullare un messaggio dl computer?

In secondo luogo non è vero che «l’ente in quanto ente è eterno»[12]. L’ente in quanto ente si dice in molti modi. L’ente può essere eterno, ma esiste anche l’ente temporale. Dice ancora: «Negare l’eternità dell’ente in quanto ente significa con ciò stesso negare l’ente»[13].  No, resta l’ente contingente. L’ateo nega l’esistenza di Dio, ma non nega l’esistenza del mondo.

Dice ancora: «l’uscire dal nulla e il ritornare al nulla delle cose è l’interpretazione che la classicità e la contemporaneità danno del divenire»[14]. Niente affatto. Questo è il nichilismo di Leopardi.  La classicità cristiana afferma che le cose non escono dal nulla, ma sono l’attuazione di un progetto o di una possibilità di essere per opera di Dio e sono conservate da Dio nell’essere, benchè alcune siano corruttibili.

Inoltre egli sostiene che:

 «una cosa non può essere e non essere nello stesso tempo significa dire che può essere e non essere in tempi diversi, cioè che non si dia contraddizione nell’ammettere un tempo in cui quella cosa non sia»[15].

Nel sec. XVII Garibaldi non è esistito, mentre nel sec. XIX è esistito. Sarebbe contradditorio il dire che nel sec. XIX è esistito e non è esistito. C’è qualcosa di scorretto nel dire tutto ciò? Siamo dei nichilisti? Cadiamo in contraddizione?

Dice egli ancora: «se la cosa è l’essere e non un che altro dall’essere, non v’è neppure un tempo in cui si possa predicare di essa il non essere»[16]. Osserviamo che Garibaldi non è una cosa altro dall’essere, perché fuori dell’essere non c’è niente. E qui ha ragione. Ma il fatto è che Garibaldi non è l’essere, ma un essere. Per questo che esista un altro essere diverso da Garibaldi non implica né contraddizione né nichilismo. E neppure deve sembrare contraddittorio riconoscere che Garibaldi, esistito nell’800, oggi non c’è più.

Barzaghi assume da Severino anche il concetto del divenire. Esso non sarebbe un fatto oggettivo indipendente da noi, un passare dalla potenza all’atto, con tutte le sue forme già note ad Aristotele: il moto locale, l’alterazione, la diminuzione e la crescita, la generazione e la corruzione, la trasformazione sostanziale ed accidentale, ma semplicemente «l’apparire e lo scomparire, nell’orizzonte della nostra esperienza, di ciò che è eterno»[17]. Dunque il diveniente non esiste. Non è, questo nichilismo?

Egli riconosce con Severino che da un punto di vista fenomenologico il divenire esiste. È la ragione che in base al principio di non-contraddizione lo giudica contradditorio, impossibile e inesistente, estraneo all’essere, che è uno e uno solo, l’unotutto o l’«intero», l’assoluto che non può non essere.

Prende da Severino una falsa concezione del divenire come «provenire dal nulla e tornare al nulla», per cui ha buon gioco nel respingerla e sostenere che tutte le cose sono eterne. Da qui la sua ripresa della concezione severiniana del divenire come «apparire e scomparire degli eterni»[18]. Divenire invece è il fatto delle cose che iniziano ad essere e finiscono di essere: una cosa evidente a chiunque, che non comporta nessuna contraddizione.

Poi, al seguito di Severino, respinge il concetto di creazione come provenire dal nulla in base alla suddetta concezione sbagliata del divenire, dimenticando che il fatto creativo non comporta nessun divenire, ma il passaggio dal possibile all’attuale o dal non-essere all’essere. Il divenire comporta passaggio dalla potenza all’atto sul piano dell’essere. L’apparire e scomparire finito di ciò che è eterno implica panteismo.

Sorge così anche in lui, come in Severino, la dialettica presa da Hegel, che oppone il divenire come esistente al divenire come non-esistente. Il principio di non-contraddizione (di Parmenide contro Hegel), a questi pensatori non impone di evitare la contraddizione, che è intrinseca all’essere, e quindi non proibisce di contraddirsi, se il reale si contraddice, come invece è proibito nella concezione aristotelico-tomista, dove sia l’essere che il divenire hanno la loro identità, ma di toglierla o risolverla, in quanto viene mantenuta ma superata dalla sintesi, ossia dalla negazione della negazione.

Inoltre, nella metafisica di Barzaghi manca il concetto del male e quindi del peccato. Infatti si tratta qui di enti di ragione come il non-essere, come il nulla. Male e peccato esistono, ma come privazione di essere. Ma se il non-essere, il nulla non esistono, succederà che anche il male e il peccato non esistono, per cui tutto è bene. Ma la situazione si può capovolgere: se l’ideale, ossia l’ente di ragione coincide col reale, succederà che tutto è male e tutto è peccato.

Tentativo di congiungere idealismo e realismo

Quello che sorprende in Barzaghi è come fa a mettere assieme il filosofare severiniano con quello tomista, data la loro incompatibilità. Egli tenta di darci una spiegazione parlando di un «filosofare originario», che sarebbe quello idealista di Severino e di un filosofare derivato, che sarebbe quello tomistico e realista[19].

Egli sembra concepire il filosofare severiniano e quello tomista non come due dottrine opposte: l’uomo è Dio e l’uomo non è Dio, ma un dire la stessa cosa (l’uomo è Dio) in due linguaggi diversi: Severino la direbbe esplicitamente, Tommaso la lascia intendere. Ora dovrebbe essere chiaro che teismo e panteismo sono incompatibili. Un conto è suonare su due registri diversi o parlare due lingue e un conto è il doppio gioco. Dobbiamo sì essere moderni, ma non modernisti. Andar oltre Tommaso deve voler dire comprendere meglio ciò che Tommaso ha indagato e scoperto, non retrocedere ai tempi di Parmenide e di Protagora.

La filosofia moderna non è Cartesio, ma il tomismo moderno. La filosofia classica o antica dei Platone, Aristotele, Agostino e Tommaso non è superata ma guastata da Cartesio ed epigoni. Esistono valori ed errori tanto nella classicità quanto nella modernità. Come discernere gli uni dagli altri? Alla luce di quale criterio? Alla luce di San Tommaso e del Magistero della Chiesa.

Ricordo che un giorno un conoscitore del pensiero di Barzaghi, mi disse: «Egli suona su due registri diversi». In realtà non è così. Chi suona su due registri diversi suona la stessa musica. Ma qui si tratta di due musiche diverse: una armoniosa, l’altra cacofonica. Sarebbe meglio dire che serve a due dèi: il Dio biblico di San Tommaso e il Dio nichilistico di Hegel.

Il suo discorso pertanto non convince, perché in realtà è più radicale Tommaso di Severino. Tommaso coglie l’essere; Severino si ferma all’essere pensato. Tommaso abbraccia nell’essere anche il divenire. Severino lo giudica contradditorio. Inoltre il pensare severiniano non è più rigoroso, ma confusionario, confondendo l’essere col pensiero.

Per Barzaghi il pensare tomista, nel suo realismo, è il modo di pensare che gli serve nella vita quotidiana e nelle relazioni col prossimo, ma non corrisponde alla sua intima convinzione e al suo reale modo di pensare, che egli condivide con gli idealisti come lui, ma che non esercita quando tratta con i realisti e con i veri cattolici e tomisti.

La sua istanza di un confronto fra la concezione dell’essere in Severino e Tommaso è ottima ed utilissima, ma egli l’ha soddisfatta in modo errato: invece di criticare la concezione severiniana alla luce di quella tomista, ha falsato quella tomista utilizzando la concezione severiniana e dando a credere d’aver superato Tommaso o averlo interpretato meglio dei tomisti moderni raccomandati o preferiti  dalla Chiesa, come per esempio il Maritain o il Cordovani o il Ciappi o il Cottier o il Fabro.  

Il monismo metafisico di Barzaghi, che attraverso Severino e Bontadini, ha le sue origini in Parmenide, monismo per il quale il pensiero coincide con l’essere, dipende da una concezione errata della conoscenza, ovvero del rapporto del pensiero con l’essere. 

Partendo dalla consapevolezza in sé giusta che il sapere comporta l’immanenza del reale nell’anima, ossia nel pensiero e nella coscienza (in anima), egli nega l’esistenza di una realtà fuori dell’anima o del pensiero (extra animam)[20]. Per lui non esiste una res extra animam e una res in anima. L’essere è pensiero e il pensiero è essere[21]. L’ideale e il reale sono lo stesso. Ente di ragione ed ente reale sono la stessa cosa.

Ora il nulla è un ente di ragione. Ne viene allora che il nulla coincide con l’essere, nonostante la sua dichiarazione formale contro il nichilismo, che nega che l’essere sia nulla. Osserviamo però che l’identità del pensiero con l’essere appartiene solo alla scienza divina, per cui Barzaghi viene a confondere il pensiero umano col pensiero divino e cade nel panteismo[22].

Se il reale o la cosa in sé non è fuori del pensiero, se l’essere coincide con l’essere pensabile, e l’esse est percipi, se si confonde il pensabile col pensato, il non pensato col pensato, se non si ammette un essere o un reale precedente, presupposto al pensare e da esso indipendente e ad esso trascendente, ma se io riduco l’essere al mio concetto e alle mie idee, ne risulterà che sono io e non Dio il creatore dell’essere. Infatti io potrò affermare Dio come creatore delle cose, se ammetto delle cose fuori di me. Ma se le cose sono i miei pensieri, dato che i miei pensieri li produco io, diventerò anche il creatore delle cose e prenderò il posto di Dio.

È solo il pensiero divino che è intrascendibile, che precede l’essere, che non trova l’essere fuori di sé già esistente, che è indipendente dall’essere, che non ha un essere fuori di sé e prima di sé. Ma tutto questo per il semplice fatto che è l’ideatore e produttore dell’essere e che crea l’essere dal nulla. Ma questo è il pensiero divino, non è il pensiero umano.

Barzaghi mi accusa di «panpsichismo» per il fatto di sostenere che nell’atto del conoscere il pensiero esce nello spazio per raggiungere il suo oggetto. Avrebbe potuto pensare a certe teorie parapsicologiche per le quali dal cervello esce un fluido che viaggiando nello spazio, ottiene una percezione a distanza.  Qui però qualcosa di simile deve pur esistere, dato che i fenomeni esistono. Ma non è certamente questa l’azione del pensiero: lo riconosco con lui. Egli mi scambia per un grossolano materialista che scambia il pensiero per i fenomeni elettromagnetici.

Riconosco altresì di aver usato una metafora infelice quando ho fatto il paragone del bambino che protende la manina per afferrare una mela. Ma come non capire che si trattava di una metafora?  Egli, però, sembra confondere la mela reale con la mela pensata. Sono certo che quando egli è a tavola abbandona il suo idealismo per il realismo.

Sta di fatto, comunque, che il pensiero coglie o afferra o comprende o raggiunge - si dica come si vuole - nel concetto il reale esterno, un qualcosa che non è il soggetto conoscente ma diverso e fuori di lui, fuori non necessariamente nello spazio, ma nell’essere, come possono essere l’anima delle altre persone, le loro idee, gli angeli, le anime dei defunti o Dio. Certo, l’oggetto conosciuto resta in sé stesso fuori del soggetto nella sua consistenza ontologica. Sia o non sia pensato dal soggetto, l’ante permane nel suo essere. Ma è pur vero che il pensiero, conoscendolo, lo interiorizza mediante una rappresentazione.

Quando quindi dico che il pensiero afferra o coglie le cose che stanno fuori di lui, non intendo dire, come egli mi fa dire, che il mio pensiero è un effluvio che esca dal mio cervello come i raggi di luce emanano dalla lampadina per raggiungere le cose che illumina. Il pensare è un’azione istantanea e immanente e non transitiva o temporale. Anzi appartiene più alla categoria della qualità o dell’habitus (habere formam) che dell’azione.

Non è quindi che il pensiero esca dall’anima per viaggiare nello spazio finchè non raggiunga l’albero o la casa. Il pensiero afferra, coglie e capisce ciò che è fuori mediante un atto spirituale e immanente al pensiero stesso, atto che è nella coscienza, atto che è la concettualizzazione e il giudizio.

Non è che il pensiero vada fuori dal soggetto, prende la cosa e se la porti dentro, come faremmo nel cogliere una mela dall’albero. Il pensiero, nel contattare il reale mediante i sensi, riceve la forma del reale e in base a questa forma, forma a sua volta una rappresentazione del reale, il concetto e il giudizio, medianti i quali coglie la verità dello stesso reale.

Fine Quarta Parte (4/5)

P. Giovanni Cavalcoli

Fontanellato, 24 novembre 2025 

Come dice Hegel, «Dio non è Dio senza il mondo». E questo insieme Dio-mondo, al di fuori del quale non c’è nulla, come non c’è nulla al di fuori dell’essere, viene chiamato l’«Intero». … Il vero dualismo non è la nozione analogica dell’essere, ma è nascosto nella nozione univocista e monista di Parmenide.

Per Barzaghi, Dio non crea ponendo ma negando; non crea entificando ma annullando. Non incrementa l’essere, ma lo finitizza. Questa concezione del finito come nulla era già stata espressa da Meister Eckhart e fu condannata da Giovanni XXII nel 1329: «omnes creaturae sunt unum purum nihil; non dico quod sint quid modicum vel aliquid, sed quod sunt unum et purum nihil» (Denz.976).

Ricordiamo anche la proposizione rosminiana condannata: «finita realitas non est, se Deus facit eam esse, addendo infinitae realitati limitationem» (Denz.3212). È lo stesso principio di Spinoza: «omnis determinatio est negatio». Nel creare Dio non incrementa l’essere, ma restringe il proprio.

Il Concilio di Firenze del 1442 dice che «in Dio tutto è uno». Non dice tutto è uno. Dire così vuol dire confondere tutto con tutto. È l’accusa che già Aristotele faceva a Parmenide. Se tutto è tutto, e ogni ente è ogni altro ente, togliamo le distinzioni, le diversità e le differenze. Ma Dio e gli enti sono enti determinati, distinti e differenti fra di loro. L’uno non è l’altro. … dire che tutto è uno porta al nichilismo.

Diverso invece e verissimo è dire che Dio è in tutte le cose, che tutte in lui sussistono e che in Dio tutto è uno, perché Egli, Essere perfettissimo che attua in Sé la totalità dell’essere, ottimo e massimo, è l’insieme unito di tutte le perfezioni nell’unità semplicissima della sua essenza, per cui Egli contiene in Se stesso tutto e ogni cosa, prima che esista fuori di Lui, contiene virtualmente nella sua essenza onnipotente, ogni cosa identica alla sua essenza, essenza divina che è identità assoluta di essere, pensiero e volontà, come la causa precontiene eminentemente in se stessa l’effetto.

Immagine da Internet: Meister Eckhart 

[1] L’intero antropologico con Gentile oltre Gentile, in Divus Thomas, 46, 2007, p.30.

[2] Vedi Divine Sophia, Cornell University Press, Ithaca, New York, 2009, p.127.                                         

[3] «Il mondo è l’intellegibilità di Dio» in Diario di metafisica. Concetti e digressioni sul senso dell’essere, Edizioni ESD Bologna 1997, p.97; Soliloqui sul divino, Edizioni ESD Bologna 1997, p.90; Oltre Dio. Ovvero omnia in omnibus. Pensieri su Dio, il divino, la divinità, Giorgio Barghigiani Editore, Bologna, 2000, p.8.

[4] Dice: «Tutto è ovunque, tutto è tutto e ogni individuo è tutto», Diario di metafisica, op.cit., p.18

[5] «Non esiste un “prima della creazione del mondo”, Diario di metafisica, op.cit., pp.86-87.

[6] L’uso del termine «struttura» come ha fatto Severino nella sua famosa opera «La struttura originaria» è un termine inappropriato e fuorviante per designare l’essenza originaria, basilare o fondamentale della realtà e la dottrina con la quale esprimere questa essenza, cioè la metafisica. Infatti la realtà non è un congegno o una macchina, ma è ciò che esiste. E l’esistente non è un ordine di parti in un tutto, un qualcosa che noi possiamo costruire o strutturare una volta saputo come è strutturato e come funziona. La realtà non è un costrutto del quale si possano conoscere i pezzi col quale è costruito, così da poterne conoscere il funzionamento e da poterlo manovrare o ricostruire a nostro piacimento. Il reale trascende ciò che è in nostro potere; non l’abbiamo costruito noi, ma è opera di Dio. Credere di poter maneggiare il reale come fosse una macchina per dargli vita o per ottenere ciò ch vogliamo, è il vecchio sogno della magia kabbalistica e delle pratiche teosofiche, esoteriche ed ermetistiche. Davanti alla realtà, soprattutto quella metafisica dobbiamo porci nell’atteggiamento umile di chi vuol apprendere ciò che non sa e descrivere ciò che è, che non è il risultato di una strutturazione di un materiale precedente, ma l’effetto di un atto creativo, che crea materia e forma dal nulla.

[7]  Vedi Antonino Postorino, Il concetto di «creatio ex nihilo». Ipoteca nichilistica e rigorizzazione metafisica, in Sacra Doctrina,1/2017, pp.199-269.

[8] Vedi nota 5.

[9] Habitat ecclesiale e habitus teologico. Per un tomismo anagogico, in Divus Thomas, 108/1, pp.293-345; Antonino Postorino, Per un tomismo anagogico. Il contributo della teoria dell’exemplar in Sacra Doctrina, 61/1, 2016, pp.216-272.

[10] Anagogia. Il cristianesimo sub specie aeternitatis, Edizioni Tipografia Commerciale, Modena 2002, p.16.

[11] «La creazione è una determinazione che riguarda l’apparire e lo sparire dell’essere», Soliloqui sul divino. Meditazioni sul segreto cristiano, Edizioni ESD, Bologna, 1997, p.83, 85; «la creazione non è produzione di qualcosa per azione transitiva, ma è teofania», Oltre Dio, op.cit., p.33.

[12] Anagogia, op.cit., p.17.

[13] Ibid.

[14] Ibid.

[15] Ibid.

[16] Ibid, p.18.

[17] Ibid.

[18] Oltre Dio, op.cit., p.26; Soliloqui sul divino, op. cit., p.146 .

[19] Vedi Philosophia. Il piacere di pensare, Edizioni Il Poligrafo, Padova 1999, p.56. Interessante “il piacere di pensare”, come se il pensare fosse fine a sé stesso e non ordinato all’essere o fosse l’essere esso stesso. Anche al demonio piace pensare, ma non per questo il suo pensare è lodevole.

[20] Soliloqui sul divino, op.cit., p.46.

[21] Ibid., p.47.

[22] Ho trattato di questo argomento in due miei articoli comparsi nella rivista Divinitas: PENSARE IL PENSIERO. CONSIDERAZIONI SULLA DIGNITA’, LE FUNZIONI E I LIMITI DEL PENSIERO, Divinitas I, 3, 2000, pp. 279-300 II, e Divinitas, 1, 2001, pp.43-72. Il Padre Barzaghi ha tentato di invalidare la critica che gli faccio nel suo articolo Inseità redentiva della creazione. Logica anagogica e metafisica della Redenzione, in Divus Thomas 37 del 2003, pp.223-225. Già nel titolo si vede la confusione che egli fa del naturale col soprannaturale, giacchè la creazione è un fatto metafisico che non c’entra con la Redenzione, evento soprannaturale, che suppone il creato come già esistente e lo eleva alla vita di grazia, e similmente la Redenzione non è un fatto logico, ma un mistero di fede. Nella critica che egli mi fa si vede che mi ha frainteso e mi fa dire quello che non dico. In questo articolo chiarisco il mio pensiero, per cui avremo conferma che chi sbaglia non sono io.

Nessun commento:

Posta un commento

I commenti che mancano del dovuto rispetto verso la Chiesa e le persone, saranno rimossi.