Il concetto di Dio in Bontadini - Prima Parte (1/2)

 

Il concetto di Dio in Bontadini

Prima Parte (1/2)

Nos per similitudines rerum, quae in nobis sunt,

       cognoscimus res in seipsis existentes

Sum.Theol., I, q.20. a.2, ad 2m

 

Il travaglio di un filosofo cattolico fra idealismo e realismo

Il pensiero di Bontadini manifesta una mente speculativa certamente di alto livello e ampiezza di orizzonti, ma si nota in esso uno stridente contrasto fra l’istanza realistica tomista e il pensiero monistico ed eternalista di Severino, erede di quel Gentile che, al dire dello stesso Bontadini, affascinò ed entusiasmò i giovani universitari dei suoi tempi.

L’attualismo gentiliano era l’apoteosi dell’autonomia, della potenza creatrice, attivante ed autofondatrice del pensiero; il pensiero intrascendibile, identico all’essere; il pensiero come totalità dell’essere, come «intero», come uno-tutto, fine a sé stesso, il pensiero che ha per oggetto sé stesso, il pensiero come l’assoluto, l’atto puro, l’atto in atto.

Bontadini mantiene il concetto dell’Intero, che però non è più l’atto del pensare, ma l’essere parmenideo, composto di Dio e mondo, sicchè Dio e mondo, come in Hegel sono le due parti dell’Intero.

L’idea dell’Intero in Bontadini è associata a quella della totalità, che è totalità ontologica (tutte le cose) e al contempo totalità teologica (Dio è il Tutto). L’«Unità» bontadiniana «dell’esperienza» è l’Uno e al contempo l’Essere parmenideo, il Tutto e l’Intero.  Ma da questa confusione viene che tutto è uno ed è Dio, e Dio è l’uno-tutto. Da qui il panteismo.

Gentile si vantava di aver superato Hegel nel compimento pieno, definitivo ed insuperabile del programma del cogito cartesiano: l’autoaffermazione dell’Io assoluto come unità e totalità del reale.  Infatti – diceva Gentile – Hegel si è fermato alla dialettica del pensato (la cosa come concetto della cosa, il reale è il razionale), ma io vado oltre retrocedendo al principio da cui viene il pensato, e cioè quel principio che è lo stesso atto del pensare, il puro pensare produttore dell’essere e di sé stesso (autoctisi).

L’essere ovvero l’Io è puro pensiero e il pensiero è l’essere, essere attivo, dinamico e storico, come già aveva capito Hegel, non statico-immobile e nulla esiste prima, fuori od oltre il pensiero. Il pensiero è l’Intero. Come poi dirà Bontadini, il pensiero è l’«unità dell’esperienza», ossia il pensare unifica l’esperienza, la quale a sua volta, è esperienza di una sola cosa: del pensiero.

Bontadini è ancora perfettamente gentiliano laddove nell’Introduzione al Discorso sul metodo[1], afferma che «il pensiero non ha bisogno di garanzie: esso è già per sé stesso la garanzia del proprio valore, la propria misura, la propria fondazione». Come a dire: il pensiero non ha bisogno di alcun appoggio, di alcun riferimento, di alcuna giustificazione, di alcuna origine o fondamento esterni a lui precedenti o presupposti.

Abbiamo qui una chiara polemica contro il realismo, sostenitore, come dice Papa Francesco, del primato della realtà sull’idea, realismo per il quale invece il pensiero, per quanto alta sia la sua dignità spirituale, è pur sempre relativo all’essere, è intenzione di essere o rappresentazione concettuale, ideale o mentale dell’essere, similitudo entis, misurata dall’essere, non è che una riproduzione mentale del reale esterno, reale che pertanto emerge o primeggia su di lui, reale che sta davanti al soggetto come oggetto, reale al quale il pensiero deve aprirsi, reale che il pensiero deve scoprire, accogliere, riconoscere, accettare, assimilare e far proprio, reale al quale il pensiero deve adeguarsi,  e dal quale dipende come da regola e modello. Da qui il rifiuto bontadiniano del realismo, considerato come «pregiudizio», per cui si crede «che ci sia da una parte l’essere e dall’altra il pensiero, come due sfere o due ordini a sé»[2].

E invece le cose stanno proprio così. Esiste effettivamente un ordine del pensiero, prodotto dallo spirito e immanente allo spirito, col suo proprio mondo, metodo, regole dettate dalla logica, una sua propria natura, princìpi, condizioni, mezzi, fini, ambiti, contenuti, orizzonti e limiti.

Eppure Bontadini aveva ricevuto un’educazione cattolica, cosa che gli permise di essere assunto all’Università Cattolica di Milano. Ma purtroppo in quell’ambiente che istituzionalmente doveva risplendere per la fedeltà al Magistero della Chiesa e a San Tommaso, Bontadini venne ad incontrarsi con suggerimenti sottilmente cartesiani, probabilmente derivanti dall’esempio dell’Università Cattolica di Lovanio, fondata dal Card. Mercier, il quale promosse una gnoseologia che, pur volendo essere realista, si lasciò in qualche misura influenzare in gnoseologia da Cartesio.

A Lovanio inoltre aveva operato il famoso filosofo e teologo gesuita Joseph Maréchal, che, sempre partendo da Cartesio, aveva tentato di dare un’interpretazione kantiana del realismo di San Tommaso. Queste operazioni svelavano che quel modernismo che San Pio X aveva condannato pochi anni prima non si era spento. Ma l’inganno sottile di questo persistente modernismo stava nel tentativo di interpretare lo stesso San Tommaso come precursore di Cartesio e di Kant.

Ora in questo ambiente intellettuale, nel quale si era diffuso questo pericoloso equivoco, Bontadini ebbe tra i suoi allievi uno straordinariamente dotato, ma infetto ancor più di lui dall’idealismo, che egli ricavava da Parmenide. L’allievo era Emanuele Severino, il quale successivamente, sedotto da Parmenide, avrebbe perso la fede accusando il cristianesimo di nichilismo.

Severino abbandonò il concetto di Dio come ente supremo e causa prima trascendente e produttrice dell’essere dal nulla e al posto di Dio assunse la nozione parmenidea dell’essere come uno-tutto, eterno, necessario ed immutabile. Per questo nel 1970 per disposizione dell’allora Rettore Giuseppe Lazzati fu allontanato dall’Università Cattolica a seguito di una censura della Congregazione per la Dottrina della Fede.

Bontadini non sposò le tesi di Severino che avevano causato il suo allontanamento perchè volle conservarsi cattolico. Tuttavia ne fu profondamente impressionato, perchè Bontadini era stato discepolo di Gentile, che lo aveva spinto ad abbracciare l’idealismo, dottrina che era alla base delle idee di Severino, perchè Parmenide può essere considerato come il fondatore dell’idealismo[3].

Fu così che Bontadini mantenne  rapporti con Severino e continuò  con lui, che era stato suo allievo, una complicata ed estenuante discussione, durata quindici anni, col suo ex-allievo, che continuamente tentò di spingerlo sulle  sue posizioni che erano incompatibili con la fede cristiana, ma Bontadini, pur tentato, resistette e non volle abbandonare la fede, la quale però ne soffrì, sicchè venne difficilmente a convivere  con la sua metafisica «neoclassica», che lo trovava diviso fra Tommaso e Parmenide, senza mai riuscire del tutto ad abbandonare l’idealismo di Gentile.

Bontadini sostiene l’idealismo perchè fraintende il realismo

Distinguere pensiero ed essere non è affatto dualismo, come dice Bontadini, ma è saggezza di chi riconosce la verità. Pensare ed essere nella creatura fanno effettivamente due. Ma non bisogna confondere il dualismo con la dualità. Dualismo è opposizione falsa di ciò che dev’essere unito o divisione falsa di ciò che è uno. Ma non è affatto questo il caso del pensiero e dell’essere. Parlare qui di «dualismo» è segno che si è infetti dal monismo di Parmenide o di Hegel, come è appunto il caso di Bontadini.

Pensare ed essere effettivamente nella creatura sono due cose diverse, ed anzi caratterizzano la creatura, per cui l’identificarle tra loro comporta il confondere la realtà creata con la scienza divina, perché solo in Dio pensiero ed essere s’identificano. 

Certamente il pensiero è un esse cognitum, è un esse intentionale e in tal senso possiamo dire che il pensiero appartiene all’orizzonte dell’essere. Ma ciò non toglie nella creatura la distinzione reale fra il suo essere e il suo pensare. Essa, anche come persona, può esistere anche se non pensa. E qui per «essere» intendo l’essere reale.

Il pensiero è essere, ma un essere derivato, subordinato e originato, mentre l’essere originario, sovraordinato e principale è l’essere reale. Il pensiero, più che essere, è intenzione o rappresentazione immateriale di essere. È il cosiddetto ens rationis o essere ideale. Ma la rappresentazione dipende dall’essere rappresentato, cioè l’essere reale. Come idea il pensiero stesso può progettare l’essere, ma allora bisogna che sia un’idea sussistente, che coincida con l’essere, un’idea divina produttrice e modello di essere.

C’è un essere nell’anima e c’è un essere fuori dell’anima. «Non è la pietra che è nell’anima – dice Aristotele – ma l’immagine della pietra». La pietra è l’ente reale in atto d’essere. L’immagine della pietra è il concetto della pietra.

Vale tuttavia anche il detto agostiniano: interiora spiritualia, exteriora materialia. Vediamo fuori di noi delle sostanze spirituali? Sì, possiamo pensare a Dio o agli angeli o ai nostri cari defunti. Sono fuori nello spazio? No, ma nel senso che sono fuori dell’atto del nostro pensiero, nel senso che stanno davanti (ob-jectum) al nostro intelletto, come l’oggetto del nostro pensiero.

Il pensiero, per raggiungere il reale che sta fuori di lui non ha bisogno di superarsi o andare al di là di sé stesso o di lasciare sé stesso, come farei io, che, per andare a far visita ad un amico che sta a Bologna, lascio Fontanellato. Non deve coprire una distanza perchè il pensiero è a immediato contatto con l’essere che è il suo oggetto.

Bontadini crede che per il realista il pensiero nel conoscere, per raggiungere l’essere che è al di là, debba lasciare e negare sé stesso. Niente affatto. Il pensiero abbraccia e include rappresentativamente l’essere, per quanto ne è capace, affermando, ampliando ed espandendo sé stesso. Il reale che è al di là nell’ignoto è destinato ad entrare nel pensiero diventando noto. Se trovo del reale che attualmente è al di là del mio attuale pensiero, attualmente ignoto, un domani potrò raggiungerlo e farlo mio nella rappresentazione.

Bontadini vorrebbe sostenere che il vero idealismo è realismo, perché fa osservare che per l’idealista l’oggetto del pensiero non è un pensiero separato dall’essere, ma è pensiero dell’essere. Non si tratta, egli dice, di ridurre l’essere al pensiero. E fin qui va bene. Senonchè, col precisare che si tratta dell’essere pensato, e non dell’essere pensabile, egli ci fa capire che non riesce a concepire un essere esistente prima del nostro pensarlo, come se l’essere esistesse perché lo pensiamo.

Esse in anima ed esse extra animam

Bontadini confonde l’esterno con l’estraneo. L’essere è amico del pensiero, ma non ne è neppur schiavo, anzi, ne è il signore. Se l’essere è esterno al pensiero, non vuol dire che sia estraneo, così come il cibo è esterno allo stomaco, ma non vuol dire che gli sia estraneo, tutt’altro, lo stomaco è fatto per ingerire il cibo. Così, se l’essere è esterno al pensiero, non vuol dire che gli sia estraneo, perché iol pensiero è fatto apposta per pensare l’essere.

L’essere è estraneo al pensiero solo nel caso dell’errore. Invece l’esternità dell’essere al pensiero è precisamente la condizione che rende possibile la verità del pensiero come adeguazione del pensiero all’essere. Il pensare umano passa dalla potenza all’atto. Il che vuol dire che l’essere esiste fuori del nostro pensiero prima del nostro pensarlo. È pensabile prima di essere pensato. Solo Dio non ha davanti a Sè un essere prima di pensarlo, perché se esso esiste è perchè lo ha pensato. Bontadini non riesce a concepire un pensare in potenza, perché identifica, come Gentile al seguito di Cartesio e di Fichte, il nostro pensare con l’atto puro del pensare divino.

Bontadini, quindi, con la sua insana polemica contro la dualità di pensare ed essere finisce col confondere il pensare umano con quello divino. Infatti per Bontadini oggetto del pensiero non è l’essere, ma l’essere pensato; non c’è essere pensabile ed essere pensato, ma l’essere è di per sé pensato. Non distingue il pensiero in atto dal pensare in potenza.

Ora è solo il pensiero divino che è esente dal rapporto con un pensabile e non passa dalla potenza all’atto. Non esiste solo il divenire fisico; c’è anche il divenire dello spirito, del pensiero, che passa dalla potenza all’atto. Solo il pensare divino è atto puro di pensare.

E ciò avviene perché Dio idea, progetta e crea quell’essere stesso che, ideato dalla sua mente, è oggetto del suo pensiero. Solo il pensiero divino è intrascendibile, perché comprende tutto l’essere nella sua mente infinita. Invece il pensiero umano è trasceso dall’essere perché l‘essere non è effetto del suo pensare, ma gli è dato da Dio da pensare e non è detto che possa conoscerlo esaustivamente o totalmente così che il suo pensarlo non sia trasceso dall’essere dell’oggetto.

Per questo l’essere al quale Dio pensa è essenzialmente pensato, benchè anche per Dio sia esterno a lui e gli stia di fronte. L’oggetto però della mente divina non è un essere che la precede ed è presupposto come avviene per il nostro atto di pensarlo, ma è un essere che è pensato nel momento stesso in cui è creato. L’uomo invece, che non è creatore dell’essere, ha per oggetto del sapere un essere preesistente da pensare, che diventa pensato solo se lo pensa. Ma se non lo pensa, resta non pesato, benché non gli sia proibito di pensare di non pensarlo.

Nel pensare umano l’atto del pensare si adegua a un essere extramentale, altro, distinto, esterno e al di là del pensiero, seppur fatto per il pensiero, mentre il pensiero è fatto per l’essere. Il pensiero coglie un essere pensabile presupposto per renderlo pensato nella rappresentazione concettuale, che pur lascia sempre l’essere in sé stesso fuori del pensiero. 

Dobbiamo dire allora che il pensiero, in quanto distinto dall’essere, è una realtà creata: è atto proprio della creatura intellettuale. Per questo il confondere il pensiero con l’essere è panteismo o ateismo. Il pensiero identificato con l’essere è solo in Dio ed è Dio. 

Il pensiero non è l’essere e l’essere non è il pensiero. Il pensiero è un mezzo per raggiungere l’essere. L’essere è la realtà o la cosa. Il pensiero è un sostituto, una rappresentazione, una similitudine dell’essere da noi prodotto nella nostra mente, che ci consente di cogliere e conoscere l’essere che è presupposto al nostro pensiero, è altro dal nostro pensiero, distinto, fuori, prima, indipendente, al di là e al di sopra del nostro pensiero, benchè il nostro pensiero, quando è vero, lo rifletta, lo rispecchi e lo rappresenti in noi mediante il concetto e il giudizio così come è in sé. Noi produciamo il pensiero; ma l’essere lo crea Dio.

Certo anche il pensiero è essere, ma in modo secondario, derivato, originato e prodotto dal nostro spirito.  L’essere del pensiero non è l’essere reale esterno all’anima, ma è un essere immateriale intramentale inferiore, subordinato al reale materiale o spirituale, è un esse cognitum e intentionale: è l’essere ideale. Lo spirito è superiore alla materia, ma la nostra rappresentazione della materia, con buona pace di Berkeley, ha un essere inferiore e funzionale all’essere della materia stessa.

E questo non è affatto materialismo, ma è il vero spiritualismo che riconosce e rispetta la realtà. Materialismo si dà quando si crede che il pensiero sia qualcosa di materiale o di derivato o causato dalla materia e che la materia possa pensare.

Due metafisici alle prese col divenire

La questione del rapporto fra essere e divenire, importantissima per i suoi riflessi cosmologici, antropologici e teologici, può andar soggetta a due soluzioni fondamentali: o porre il primato dell’essere sul divenire, che è la soluzione giusta, che conduce al teismo, oppure porre il primato del divenire sull’essere, che è la soluzione sbagliata di tipo materialista o evoluzionista, che conduce all’ateismo o al panteismo.

Ma c’è anche chi accettando l’essere, crede di dover respingere il divenire o chi accettando il divenire, pensa di dover rifiutare l’essere. Tra i primi troviamo Severino e Bontadini; grande esponente invece dei secondi è Hegel.

Per i primi l’essere appare e scompare come divenire; per i secondi l’essere coincide semplicemente col divenire.  Per i primi l’eterno diviene; per i secondi il divenire è eterno. Nell’antichità ai primi corrisponde Parmenide, ai secondi, Eraclito. Agli eternalisti in campo ecclesiale corrispondono i passatisti; agli storicisti corrispondono i modernisti.

Tanto Bontadini quanto Severino avvertirono con straordinaria intensità la questione del rapporto dell’essere col divenire, ma entrambi, accantonando irragionevolmente Aristotele e San Tommaso, si invischiarono nelle inestricabili contraddizioni del parmenidismo, quando, seguendo il maestro greco e quello cristiano, avrebbero potuto trovare la via di uscita.

Infatti Aristotele si era reso conto benissimo del problema di mettere d’accordo il divenire col principio di non-contraddizione, considerando la posizione di Platone che si era fermato a dire che il divenire è un essere che non è, soluzione evidentemente insoddisfacente. 

Platone non era riuscito a capire che per risolvere il problema del divenire non basta giocare con i concetti dell’essere e del non-essere, per quanto importanti essi siano, ma bisogna saper guardare alla realtà del divenire, che si pone a suo modo sul piano dell’essere o dell’ente, modo peculiare che non è quello dell’immutabile, ma non per questo è escluso dall’essere. Anche il divenire ha una sua identità e anche, come insegna Aristotele, una sua necessità, data dal fatto che il diveniente, nel momento in cui diviene, non può non divenire. Si tratta semplicemente dell’essere che può non essere, ossia del contingente.

 Il non-essere è sì presente nel divenire, ma non nel ruolo annullatore che si immaginano Bontadini e Severino. Questo non-essere non nega l’essere attuale o presente del diveniente; semplicemente e giustamente nega l’essere che c’è già stato e l’essere che non è ancora. Certo, per capire occorre tener presente il tempo, che pure è una realtà dipendente dal divenire o dal moto.

Anche il tempo esiste e non è affatto contradditorio, perché il passato, il presente e il futuro non stanno assieme, ma si succedono l’uno all’altro. È la considerazione del tempo che ci fa capire che il divenire non è contradditorio. Sono solo l’eterno, l’immutabile, lo spirito, l’universale, la matematica, il concetto e la pura essenza che ci mostrano la loro incontradditorietà a prescindere dal tempo, perché essi sono fuori o al di sopra del tempo o astraggono dal tempo. Invece l’identità del mutevole la si capisce solo considerando che esso è immerso nel tempo.

La soluzione aristotelica decisiva allora, che tiene conto del tempo, è l’introduzione della distinzione fra essere in potenza (dynamis) ed essere in atto (energheia). In fondo il discorso è molto semplice e inattaccabile, di comune buon senso: la statua in potenza non è la statua in atto; prima era in potenza e adesso è in atto.

 È chiaro che se, fraintendendo il principio di non-contraddizione alla maniera di Parmenide («l’essere non può non essere»), si commette la stoltezza di trascurare l’atto e la potenza e di accantonare il prima e il poi, salta fuori che la statua non è la statua. La statua esiste e non esiste.

Per forza allora il divenire diventa contradditorio.  Ma ciò dipende solo dal fatto che non lo si vuol capire così come Aristotele insieme col buon senso ce lo fanno capire. Ora, se il diveniente è assurdo e se il mondo è diveniente, anche ammettendo l’esistenza di Dio come essere necessario e immutabile, si finirà col dire che esiste solo Dio e che il mondo, se vuol esistere, dovrà identificarsi con Dio.

E dove va a finire la creazione? Non potrà più essere la produzione divina di un mondo dal nulla, esterno a Dio, ma bisognerà cambiare il concetto stesso di creazione che diventa un’autolimitazione o un’ autodeterminazione di Dio, per cui una parte o ingrediente di Dio – il mondo - dipende dall’uno-tutto o dall’intero divino interno all’essenza di Dio, così come l’angolo retto di un triangolo dipende dalla forma del triangolo. Ugualmente il creare comporta una relazione di dipendenza, nel senso che l’esser creato è una relazione di dipendenza del dipendente dal creatore, mentre il creatore si limita a far dipendere la creatura dal creatore. Il creare è dunque una semplice limitazione dell’infinito, una causa puramente formale, che nulla ha a che vedere con la causalità motrice, efficiente o produttiva.

Notiamo inoltre che concepire l’esser creato come passaggio dal non-essere all’essere per Severino e Bontadini è una contraddizione, perché sarebbe come dire che il non-essere è l’essere. Non comprendono che la parola «passaggio» vuol dire semplicemente che una cosa che prima non esisteva, adesso esiste. Io 100 anni fa non esistevo, perché solo 84 anni fa Dio ha creato la mia anima, cioè l’ha fatta passare dal nulla all’essere. È questa una contraddizione? Io esisto e non esisto perché Dio mi ha dato l’essere 84 anni fa?

Bontadini però dice una cosa giusta: se il divenire nella sua finitezza fosse originario, sarebbe contradditorio. Certo, il divenire non può essere Dio, con buona pace di Hegel. Il divenire è derivato da Dio. Tuttavia bisogna dire con dispiacere che Bontadini non si ferma a questa asserzione, ma cede anche all’idea del divenire contradditorio come tale. E questo lo porta al monismo panteistico.

Bontadini, comunque, notò in Gentile una concentrazione esagerata nel pensiero ai danni dell’essere. Egli si accorse che in fin dei conti l’oggetto del pensiero non è il pensiero, ma l’essere. In tal modo si allontanò dall’idealismo estremo e si ricordò del realismo nel quale era stato formato grazie all’educazione cattolica ricevuta.

 A quei tempi erano apparsi Husserl ed Heidegger, i quali pure cominciarono a ricordarci che il pensiero dev’essere pensiero dell’essere.  Heidegger parlava della verità dell’essere, mentre Husserl proclamava la necessità di andare «alle cose stesse».  Lo sfondo restava idealista; tuttavia si manifestava una chiara istanza realista e Bontadini la raccolse. Ma invece di andare all’esse tomistico, che garantisce il pieno realismo e il giusto concetto di Dio, volle puntare su Parmenide, alla sua dottrina dell’essere uno, unico, eterno e necessario, che escludeva il divenire considerandolo contradditorio.

Bontadini possiede un concetto di Dio come essere assoluto, eterno, necessario, infinito, immutabile e personale. In questo concetto però manca quello di Dio come causa prima, motore immobile, creatore dell’essere dal nulla, fine ultimo, sommo bene, ente supremo. Non si è accorto che Parmenide confonde l’essere con l’essere divino. Invece Dio non è semplicemente l’essere, né l’essere come tale è Dio.  Dio è l’essere eterno, infinito, necessario; ma ente è anche l’ente finito, contingente e diveniente.

Ora accade che questi elementi sono insufficienti per stabilire un concetto pienamente vero di Dio. Bontadini non è riuscito ad arrivare ad un concetto teistico, ma, per non aver voluto abbandonare l’idealismo cartesiano, è arrivato a un concetto panteistico di Dio, in senso non diverso da quello di Giordano Bruno, Fichte, Schelling ed Hegel. In Bontadini il diveniente si libera dalla contraddizione perchè, come suggeriva Severino, è l’apparizione determinata e finita dell’Uno e dell’Identico.

Tanto Bontadini quanto Severino mettono giustamente in luce l’irrinunciabilità del principio di non-contraddizione; ma essi lo esprimono in modo insufficiente. Essi infatti lo formulano così: l’essere non può non essere.  Si tratta della visione parmenidea, per la quale l’essere è solo l’essere necessario. Invece la formula giusta, che pur essi accolgono, è la seguente: l’essere non è il non-essere.

L’inconveniente della prima formula è che non salva l’essere contingente, ossia l’essere che può non essere. Un conto è dire: può non essere e un conto è dire: non è. Non si deve confondere il possibile con l’attuale.

Infatti l’essere che non può non essere è l’essere necessario. Dunque non c’è posto per l’essere contingente, che è l’essere che può non essere. Allora la formulazione chiara e completa che includa sia il necessario che il contingente, sia il mutevole che l’immutabile, sia l’essere che il divenire, è la seguente: non è possibile che un ente sia e non sia simultaneamente sotto il medesimo aspetto. Infatti un ente può essere prima e non essere dopo.

La medesima persona prima vive e poi muore. Non c’è qui alcuna contraddizione. Essa ci sarebbe se ammettessimo che una medesima persona può essere simultaneamente viva e morta.  La contraddizione nasce, se, come vorrebbe Severino, togliamo il tempo. Ma è assurdo togliere il tempo, perché il tempo deriva dal moto[4]. Ora, il contingente è il diveniente. Così, stando a come il principio viene da loro formulato, esso non lascia apparire l’identità del divenire, e per questo sembra lesivo del principio. Indubbiamente l’istanza della non-contraddizione è giustissima. Ma ciò che esiste non può essere contradditorio. Ora il divenire esiste. Riconosco tuttavia che non è facile da spiegare o interpretare. Se considero infatti un uccello in volo, posso chiedermi: dov’è? Qui o lì? Per conoscere io ho bisogno di fissare l’oggetto. Ciò che non è fermo, ciò muta lo vedo e lo sento bene con i miei sensi, ne faccio esperienza, ma mette in difficoltà la mia ragione, che ha bisogno di identità. Pertanto il mutevole o il diveniente sembra sfuggire alla mia ragione, sembra contrastarla nel suo bisogno di qualcosa di fisso o di immutabile o di stabile. Per lo meno io afferro, capisco e concettualizzo ciò che è fisso. La natura umana posso definirla: è sempre quella; una persona in movimento non riesco a definirla e a concettualizzarla.

Vedo un uccello in volo. Sembra a tutta prima che esista e non esista, perché esso esiste qui ed è esistito lì. Tuttavia capisco che è sempre lui, perché prima è qui e poi è lì. Ma l’istante in cui è in movimento mi sfugge e mi trovo a dover scegliere tra un passato e un futuro.

Fine Prima Parte (1/2)

P. Giovanni Cavalcoli

Fontanellato, 16 settembre 2025

L’idea dell’Intero in Bontadini è associata a quella della totalità, che è totalità ontologica (tutte le cose) e al contempo totalità teologica (Dio è il Tutto). L’«Unità» bontadiniana «dell’esperienza» è l’Uno e al contempo l’Essere parmenideo, il Tutto e l’Intero.  Ma da questa confusione viene che tutto è uno ed è Dio, e Dio è l’uno-tutto. Da qui il panteismo.

Certamente il pensiero è un esse cognitum, è un esse intentionale e in tal senso possiamo dire che il pensiero appartiene all’orizzonte dell’essere. Ma ciò non toglie nella creatura la distinzione reale fra il suo essere e il suo pensare. Essa, anche come persona, può esistere anche se non pensa. E qui per «essere» intendo l’essere reale.

C’è un essere nell’anima e c’è un essere fuori dell’anima. «Non è la pietra che è nell’anima – dice Aristotele – ma l’immagine della pietra». La pietra è l’ente reale in atto d’essere. L’immagine della pietra è il concetto della pietra.

Vale tuttavia anche il detto agostiniano: interiora spiritualia, exteriora materialia. Vediamo fuori di noi delle sostanze spirituali? Sì, possiamo pensare a Dio o agli angeli o ai nostri cari defunti. Sono fuori nello spazio? No, ma nel senso che sono fuori dell’atto del nostro pensiero, nel senso che stanno davanti (ob-jectum) al nostro intelletto, come l’oggetto del nostro pensiero.

Immagine da Internet: Kandinsky

[1] La Scuola Editrice, Brescia 1957, p. XVII.

[2] Ibid.

[3] Col suo famoso principio: to autò to noein kai to einai, il pensare e l’essere sono la stessa  cosa.

[4] Vedi Luca Gili, Aquinas on Change and Time, Georg Olms Verlag, Baden-Baden 2024.

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