La concezione idealistica della filosofia
Terza Parte (3/5)
L’idealismo di Fichte contro la cosa in sé
A somiglianza di Cartesio Fichte sceglie come punto di partenza e base della sua filosofia la coscienza che l’io ha di sé stesso. Sarebbe stato più radicale se, come fa Aristotele, avesse scelto l’ente come ente, che è il concetto più universale e fondamentale che implicitamente include tutti gli altri. La nozione dell’io non è primaria, ma derivata: la formo quando rifletto su di me, dopo aver contattato le cose, sì, proprio dopo aver contattato quella cosa in sé che egli irragionevolmente aborrisce e che Kant volle giustamente mantenere, nonostante i suoi pressanti inviti ad abbandonarla.
Ma anche volendo partire dal mio io, perché mai al mio io dovrebbe essere «contrapposto un non-io»?[1]. Perché mai ci dovrebbe essere per forza e sempre qualcuno che mi dà contro? Che si oppone alla mia esistenza? Non potrebbe essere semplicemente un tu, un altro, un fratello, un diverso col quale entro in amicizia? Non c’è nessuno che mi ama? Devo essere sempre in guerra? Il noi non esiste?
E perchè mai l’io dovrebbe essere l’«Io assoluto»?[2]. Sono forse Dio? «Io sono posto perchè mi sono posto»[3]. Come è possibile? Se sono posto, qualche altro mi ha posto. Se sono io a porre, porrò qualcosa di diverso da me. Non posso essere causa ed effetto di me stesso nello stesso tempo, perché dovrei esistere prima di esistere in quanto causa e dovrei esistere dopo di esistere come effetto. Siamo nel pieno dell’assurdo.
E da dove salta fuori il «terzo nell’io» (oltre l’io e il non-io) «in cui ambedue sarebbero uguali e questo sarebbe il concetto della quantità»?[4] E come fanno ad essere uguali se l’uno è opposto all’altro? E come fa a saltare fuori la quantità da due concetti (io e non-io) in opposizione fra di loro?
Dal che vediamo come la famosa fondazione fichtiana della scienza faccia acqua da più parti. Non so quali garanzie può dare una filosofia fondata su simili discorsi. Ad ogni modo, l’interesse per la concezione fichtiana della filosofia è dato dal fatto che per Fichte il vero realismo è proprio l’idealismo. La cosa in sé esterna al pensiero è un’invenzione, perché «non si presenta nell’esperienza»[5]. La cosa in sé è solo un «prodotto della rappresentazione dell’intelligenza», del «libero pensiero», «una mera invenzione che non ha realtà alcuna»[6]. Si tratta di una «chimera bella e buona». Trascende il pensiero e quindi non le si può attribuire alcuna realtà di nessun genere. «Il realismo presuppone qualcosa che in nessun modo è nella coscienza … e che quindi è un’escogitazione ben arbitraria e problematica»[7].
Per l’idealista una realtà che sia al di là o al di sopra del pensiero è un’invenzione o qualcosa di fittizio. Alcuni arrivano a dire che è un’assurdità, perché a loro dire sarebbe una realtà pensata non-pensata. A loro non viene neppure in mente che è semplicemente la realtà pensabile. D’altra parte con l’immanentizzare l’essere nella coscienza non si accorgono di essere loro a dissolvere la realtà nell’immaginazione.
Fichte domanda ai realisti: «vogliono attribuire l’esclusivo predicato della realtà, anzi dell’attività, a un mero pensiero?»[8] . Il bello è che questa accusa viene da proprio da un Fichte il quale concepisce la realtà come effetto del pensiero, come il mio non-io che io pongo nel mio io.
L’accusa che gli fu rivolta di ateismo certamente si può ricavare dal suo modo idolatrico di concepire l’io, ma essa non tenne conto del fatto che la sua suddetta distinzione fra finito e infinito salvava la trascendenza di Dio e impedisce ad un tempo l’ateismo e il panteismo[9].
Schelling: l’idealismo è l’originario, il realismo è il derivato
È interessante questa definizione dell’idealismo data da Schelling e che Hegel riporta nelle sue Lezioni sulla storia della filosofia[10]: «L’idealismo è il meccanismo del sorgere del mondo oggettivo dal principio interno dell’attività spirituale», come se fossimo noi a produrre il mondo col nostro pensiero.
Riferendosi a Fichte, Schelling definisce così l’idealismo:
«L’idealismo è il sistema per il quale l’intero mondo cosiddetto oggettivo non ha alcuna consistenza esistenziale oggettiva, ma è reale soltanto nelle rappresentazioni necessarie dell’Io»[11].
Tuttavia per Schelling l’«intera filosofia non è null’altro che la prova progressiva, sempre crescente, rafforzantesi ad ogni passo, di Dio realmente esistente»[12]. Qui per «prova» non s’intende una realtà esterna causata che rimandi a Dio come causa prima, ma è sinonimo di esperienza o intuizione, giacchè per Schelling l’intelletto ha sempre per oggetto intuitivamente l’Assoluto, che è Dio.
Secondo Schelling l’idealismo trascendentale unisce l’idealismo, che si basa sull’autocoscienza al realismo che ammette le cose esterne. Questa seconda convinzione per Schelling, come per Cartesio, è falsa. Tuttavia, mentre per Cartesio diventa vera in quanto appresa per garanzia o rivelazione divina, per Schelling diventa vera in quanto s’identifica con l’io sono. Il sapere trascendentale mira al soggettivo, ossia all’io; il realismo, che Schelling chiama con Fichte, «sapere comune», mira all’oggettivo, ossia alle cose. Il sapere soggettivo è la filosofia dello Spirito; il sapere oggettivo è la filosofia della natura. L’Assoluto, dovendosi concettualizzare, è natura e spirito. Ma in sé stesso non è né l’una né l’altro, ma al di là di entrambi, e quindi indifferente ad entrambi.
Secondo Schelling l’affermazione «io sono» coincide con quella che dice «esistono cose fuori di me». La certezza di questa deriva dalla certezza di quella. È lo stesso procedimento di Cartesio: l’autocoscienza è la condizione di possibilità della conoscenza delle cose. Per Cartesio noi non arriviamo all’autocoscienza partendo dalla conoscenza delle cose, ma basiamo detta conoscenza sull’autocoscienza. L’idealismo è la filosofia originaria; il realismo è la filosofia originata.
Per Schelling che esistano cose fuori di noi è un «pregiudizio fondamentale». È un «fatto contradditorio» che si spiega col fatto che «quella proposizione … è non già connessa, ma identica, anzi una sola e medesima cosa con una coscienza immediata», cioè con la coscienza dell’«io sono». E «mostrare una tale identità dev’essere il compito proprio della filosofia trascendentale»[13].
La proposizione che esistono cose fuori di me, presa da sola, come fondamento del sapere, come fa il realismo, è secondo Schelling, è una proposizione contradditoria, perchè le cose dovrebbero essere fuori come cose e dentro come conosciute. Ma se la proposizione realistica la si basa sull’io sono, la contraddizione scompare. Infatti nell’io sono, come aveva già mostrato Fichte, c’è il non-io che sono le cose fuori che sono dentro l’io.
Qualcosa del genere sembra averlo già detto Kant, quando sostiene che l’incondizionato può essere affermato incontraddittoriamente solo se il sapere è basato sull’io sono e non sull’affermazione delle cose esterne. Infatti, come egli dice:
«ammettendo che la nostra conoscenza sperimentale si regoli sugli oggetti come cose in sé, si trova che l’incondizionato non può essere pensato senza contraddizione, mentre, al contrario, se si ammette che le nostre rappresentazioni delle cose quali ci sono date, non si regoli su di esse, come sono in se stesse, piuttosto che questi oggetti, come fenomeni, si regolino sul nostro modo di rappresentarceli» (cioè sull’io sono) «si trova che la contraddizione scompare»[14].
Osserviamo che l’accusa di falsità o contradditorietà del realismo da parte di Kant e di Schelling, che si riallaccia a quella di Cartesio, è un’accusa che si autoconfuta perché l’attitudine al realismo è naturale all’intelletto, mentre è l’idealismo ad essere innaturale in quanto l’idealismo prende per oggetto del conoscere (l’ente) quello che è il mezzo (l’idea). Il realismo non ha alcun bisogno di essere salvato dall’idealismo, ma semmai è l’idealismo che viene confutato dal realismo, come dimostra San Tommaso in un famoso articolo della Summa Theologiae, I, q.85, a.2[15].
Il rapporto del realismo con l’idealismo Schelling lo descrive come un processo di oggettivazione del soggettivo. Dall’io sono, che è il sapere originario deriva la concettualizzazione delle cose esterne. Schelling sembra concepire come una fondazione del realismo nell’idealismo. Lo spunto originario di questo modo di concepire il sapere sembra essere fornito da Cartesio, il quale, però, pur partendo dall’accusa di falsità del realismo, lo recupera grazie alla veracità divina. Invece con Schelling la veracità divina sembra essersi dileguata e subentra la dialettica.
Resta un io sempre più invadente e pretenzioso, che in Fichte appare già come un io divino. E per questo, se il Dio trascendente è ancora presente in Cartesio, in Schelling è scomparso nell’Assoluto indifferenziato. Questo processo di divinizzazione dell’io avrà il suo pieno compimento in Hegel, i cui concetti della Scienza assoluta, dell’Idea assoluta e dello Spirito assoluto, coincidono con Dio stesso.
È questo il vizio dello gnosticismo[16] recentemente denunciato da Papa Francesco[17] e da lui descritto in questi termini:
«la pretesa di rendere perfettamente comprensibili le verità di fede, un sistema chiuso, una spiritualità disincarnata, la pretesa di ridurre l’insegnamento di Gesù ad una logica che cerca di dominare tutto, compresa la trascendenza di Dio. l’uso della religione a servizio delle proprie elucubrazioni mentali, la pretesa di addomesticare il mistero»[18].
L’Assoluto scellinghiano è l’identità indifferenziata di soggetto-oggetto, finito-infinito, conscio-inconscio ideale-reale, io-realtà esterna. Sembra uno sviluppo dell’io assoluto di Fichte. Sembrerebbe indicare Dio; egli lo chiama «Dio»; senonché egli ne parla in termini che, messi a confronto con i veri attributi divini e con il procedimento razionale per arrivare alla conoscenza del vero Dio, essi risultano incongrui con la vera natura di Dio, come vedremo dai passi di Schelling riportati sotto da Hartmann. Egli infatti delinea così l’Assoluto di Schelling:
«L’essenza dell’Assoluto (o, il che è lo stesso, di Dio), è la ragione. La ragione deve differenziarsi in fattore soggettivo e fattore oggettivo, per essere ciò che è implicato nella sua essenza: l’autocoscienza. Solo nell’autocoscienza è attualizzata la sua essenza, l’esser per sé»[19]. «Il processo cosmico non è semplicemente l’Assoluto, bensì soltanto la sua “attualità”, cioè il suo progressivo autoconoscersi»[20]. «La natura è il fondamento della rivelazione dell’essere dell’Assoluto»[21].
Nicolai Hartmann osserva come per Schelling
«la totalità assoluta di ogni potenza reale e la totalità di ogni potenza ideale costituiscono insieme un equilibrio assoluto, poiché si compensano totalmente le polarità quantitative del soggettivo e dell’oggettivo in esse presenti. La totalità assoluta di ogni potenza è perciò perfettamente una cosa sola con l’essere dell’identità assoluta. Poiché però questa totalità non è nient’altro se non l’universo completo (non soltanto quello cosmico, ma anche quello della coscienza e perciò la doppia totalità di ogni fattore soggettivo e di ogni fattore oggettivo), deve valere il principio con cui Schelling si stacca radicalmente dallo spinozismo così come dall’emanazionismo: “Non è l’identità assoluta la causa dell’universo, bensì l’universo stesso; infatti tutto ciò che è, è l’assoluta identità stessa”»[22].
Cioè, mentre per Spinoza Dio è sostanza unica ed assoluta e il mondo è proprietà accidentale o modale della sostanza divina e per Plotino il mondo è emanazione dell’Uno, per Schelling Dio è il termine dell’autosviluppo vitalistico del mondo, che da materia diventa spirito o meglio da spirito inconscio diventa conscio, come gli era stato suggerito dal pensiero di Giordano Bruno, per il quale Schelling nutriva grande ammirazione[23].
Schelling afferma che per conoscere l’Assoluto occorre mettersi dal punto di vista dell’Assoluto, cioè «partire dall’Assoluto» ed afferma che
«l’Assoluto non può essere dato in un concetto»[24], che «l’esistenza dell’Assoluto non si può dimostrare, ma è oggetto di un’intuizione intellettuale immediata»[25]. Afferma che «l’Assoluto è principio di tutta quanta la filosofia; la teologia assume Dio come un oggetto particolare, mentre la filosofia considera Dio come fondamento supremo per la spiegazione di tutte le cose ed estende perciò anche ad altri oggetti l’idea di Dio»[26]. «L’Assoluto può essere dato solo attraverso l’Assoluto»[27]. La conoscenza infinita dell’Assoluto è nello stesso tempo l’essere dell’Assoluto e con ciò è raggiunto l’idealismo assoluto»[28].
Per Schelling non si può provare l’esistenza di Dio, partendo dagli effetti e non è neanche necessario. Non si può provare perché egli intende il provare non nel senso di mostrare la causa partendo dall’effetto, ma nel senso di fondare. E allora è evidente che Dio non può essere fondato, giacchè è lui il fondamento di ogni cosa.
A Schelling, come a Kant, manca una nozione analogica della causalità. Concepisce solo la causa dei fenomeni fisici della natura. Per questo non riesce ad usare la nozione di causalità per dimostrare l’esistenza di Dio, giacchè Dio è puro spirito e non un fenomeno empirico e sensibile. Non è necessario perchè secondo lui, come per tutti gli idealisti, Dio è l’essere, per cui, posto che il pensiero ha per oggetto l’essere, quando pensiamo, qualunque cosa pensiamo, pensiamo a Dio. Quindi, non pensare Dio per l’idealista vuol dire semplicemente nin pensare.
Schelling distingue una filosofia negativa da una filosofia positiva[29]. La prima coglie l’Assoluto in una intuizione intellettuale concettuale, negando la negazione (allusione alla filosofia di Hegel); la seconda lo coglie in un’estasi non concettuale e senza parola. Egli però vuol prender le distanze dai mistici cristiani, che si basano sulla fede, perché l’estasi della quale parla sarebbe solo filosofica. Tale estasi assomiglia quella puramente razionale di Plotino. Così Pareyson riassume il pensiero di Schelling un merito:
«Mentre l’intuizione intellettuale coglie e offre l’assoluto nella sua piena realtà e attualità, nel suo porsi ed affermarsi, nel suo essere» (=essenza) «e nel suo esistere, invece l’estasi non attinge e non rende che il puro esistente, la semplice e nuda esistenza, un qualcosa di irriducibile e di indicibile in cui soltanto in seguito si potrà riconoscere un essere» (=un’essenza).
«Più concretamente, se l’intuizione offre Dio nella sua realtà, come essente» (=essenza) «ed esistente insieme, come indifferenza, anzi identità di essenza ed esistenza, l’estasi fornisce invece la mera esistenza, senza essenza, che non ha né nome né concetto[30], un qualcosa che non è Dio» (è l’Assoluto oltre Dio, come dirà Barzaghi)[31], «ma può diventarlo, una volta che si giunga a darvi un nome e ravvisarvi non solo l’essere, ma il Signore dell’essere[32].
Inoltre, mentre l’intuizione intellettuale non è un semplice atto della ragione, ma è la ragione stessa, dell’essere stesso dell’autocoscienza, l’identità di soggetto e oggetto, la piena trasparenza del pensiero a se stesso, invece l’estasi comporta un rapporto negativo con ciò che essa coglie, giacchè lo raggiunge solo negandosi, cioè uscendo da sé, e lo capta solo possedendolo in una forma di conoscenza muta.
Più da vicino, se l’intuizione intellettuale è il pensiero stesso nella sua incontaminata e limpida purezza e nella sua sicurezza intrepida e imperturbata, l’estasi invece, esperta della vicenda che solo attraverso il fallimento della pura ragione la conduce a buon porto, contiene in sé, come suo momento costitutivo, una specie di alterazione e di oscurità, che nel velare e turbare la conoscenza, lungi dall’impedirla e comprometterla, finisce invece col renderne possibile l’avvio e il successo»[33].
Mentre la filosofia negativa, che Schelling attribuisce ad Hegel, ha un carattere schiettamente idealistico, perché qui il concetto s’identifica con l’Assoluto, il razionale col reale, nella filosofia positiva Schelling sembrerebbe recuperare, con l’esperienza dell’estasi, il realismo, in quanto è chiaro che, se il soggetto esce da sé, è perchè c’è una realtà fuori del soggetto, per cui l’essere non coincide con l’essere pensato, alla maniera di Berkeley, ma è un essere ancora da pensare – in tal caso l’essere divino – prima di essere pensato e anche se non è pensato, ma per esistere è sufficiente che Egli pensi di se stesso.
Fine Terza Parte
P. Giovanni Cavalcoli
Fontanellato,
16 ottobre 2025
Fichte non si rende conto che l’io empirico, l’io individuale del singolo uomo, non è la particolarizzazione di un io universale («trascendentale» o «assoluto») autosussistente che pone sé stesso, similmente al rapporto che esiste tra Fido e Pluto da una parte e l’essenza universale astratta del cane dall’altra, supponendola alla maniera platonica, come fosse un ente sussistente. Al contrario l’io umano è l’effetto creato di quell’Io assoluto, che è Dio stesso creatore.
Secondo Schelling l’affermazione «io sono» coincide con quella che dice «esistono cose fuori di me». La certezza di questa deriva dalla certezza di quella. È lo stesso procedimento di Cartesio: l’autocoscienza è la condizione di possibilità della conoscenza delle cose. Per Cartesio noi non arriviamo all’autocoscienza partendo dalla conoscenza delle cose, ma basiamo detta conoscenza sull’autocoscienza.
Una nozione fondamentale ma molto oscura della filosofia di Schelling è quella dell’Assoluto, sinonimo per lui dell’incondizionato o del Tutto. Dice che è il «Primo». L’Assoluto scellinghiano è l’identità indifferenziata di soggetto-oggetto, finito-infinito, conscio-inconscio ideale-reale, io-realtà esterna. Sembra uno sviluppo dell’io assoluto di Fichte. Sembrerebbe indicare Dio.
Mentre per Spinoza Dio è sostanza unica ed assoluta e il mondo è proprietà accidentale o modale della sostanza divina e per Plotino il mondo è emanazione dell’Uno, per Schelling Dio è il termine dell’autosviluppo vitalistico del mondo, che da materia diventa spirito o meglio da spirito inconscio diventa conscio, come gli era stato suggerito dal pensiero di Giordano Bruno, per il quale Schelling nutriva grande ammirazione. Schelling afferma che per conoscere l’Assoluto occorre mettersi dal punto di vista dell’Assoluto, cioè «partire dall’Assoluto».
Immagini da Internet: Rappresentazione della creazione del mondo, Miniatura dal codice 212 (o codice padovano o Bibbia di Padova), Accademia dei Concordi
[1] La dottrina della scienza, Editore Laterza, Bari1971, p.51.
[2] Ibid.
[3] Ibid., p.41.
[4] Ibid.
[5] Luigi Pareyson, Fichte, vol. I, Edizioni di «Filosofia». Torino 1950, p. 183
[6] Ibid., p.184.
[7] Ibid.
[8] Ibid., p.186.
[9] Per questa posizione di Fichte e per il superamento che ne fece Schelling concependo l’Assoluto come identità di finito ed infinito, vedi l’accurata analisi che ne fa Adriano Bausola nel suo libro Lo svolgimento del pensiero di Schelling, Editrice Vita Pensiero, Milano 1969, pp.17-49.
[10] La Nuova Italia, Firenze 1981, vol. 3,II, p.383.
[11] Filosofia della rivelazione, Edizioni Bompiani, Milano 2002, p.83.
[12] Cit. da Walter Kasper, L’Assoluto nella storia. L’ultima filosofia di Schelling, Jaca Book, Milano 1986, p.101.
[13] Sistema dell’idealismo trascendentale, Editori Laterza, Bari 1990, p.12.
[14] Critica della ragion pura, Editori Laterza, Bari 1965, p.23.
[15] Questa critica di Tommaso può sembrare troppo semplicistica e confondere l’idealismo con i fenomeni allucinatori. Da questa critica risulta sostanzialmente che l’idealista confonde l’apparenza con la realtà. Tommaso cita il principio che Aristotele attribuisce a Protagora: verum est quod videtur. Ora è vero che bisogna distinguere idealismo e allucinazione, ma la differenza sta solo nel fatto che mentre l’allucinazione sta nell’inganno del senso, l’idealismo è un inganno dell’intelletto. L’allucinazione comporta un’illusione individuale; l’idealismo legittima un’autoillusione trascendentale: è quella stessa della quale parla lo stesso Kant senza rendersene conto. Ma allora ciò vuol dire che il peccato dell’idealismo è quello che il Catechismo di San Pio X chiama impugnazione della verità conosciuta.
[16] Notiamo che la massoneria fa aperta professione di gnosticismo. Vedi: Léon de Poncins, Freemasonry and the Vatican. A struggle for recognition, Britons Publishing Company,London 1968. Opportunamente quindi appare un saggio su Schelling in una raccolta di studi sullo gnosticismo: Natalie Depraz et Jean-François Marquet, La gnose, une question phlosophique. Pour une phénomenologie de l’invisible, Les Éditions du Cerf, Paris 2000.
[17] Esortazione apostolica Gaudete et exsultate del 19 marzo 2018, nn.36-47.
[18] Ibid.
[19] La filosofia dell’idealismo, op.cit.,p.143.
[20] Ibid.
[21] Ibid.
[22] Ibid., p.141
[23] Vedi Bruno o il divino e il naturale principio delle cose,Edizioni Spano senza data e luogo di pubblicazione.
[24] Citato da Walter Kasper, in L’Assoluto nella storia. L’ultima filosofia di Schelling, op.cit., p.101
[25] Ibid.
[26] Ibid., p. 100.
[27] Ibid., p.107.
[28] Ibid., p.104.
[29] Ontologia della libertà. Il male e la sofferenza, Einaudi Editore, Torino 2000, pp.385-437.
[30] È il «Dio senza nome, mistero assoluto», del quale parlerà poi Rahner. Vedi Esercizi spirituali per il sacerdote, Queriniana Editrice, Brescia 1974, pp.9-10.
[31] Vedi il suo libro Oltre Dio, citato a p.45.
[32] San Tommaso ammette un’intuizione dell’essere o dell’esistere, ma possiamo pensarlo solo come se fosse un’essenza. Da qui la possibilità di formare un concetto dell’essere. La visione dell’essere divino è possibile invece solo in paradiso. Vedi Maritain, Court traité de l’erxistence et de l’existant, Paul Hatmann Éditeur, Paris 1947; Benoît-Marie Simon, Esiste un’«intuizione dell’essere», Edizioni Studio Domenicano, Bologna 1995.
[33] Ontologia della libertà, op.cit., pp.392-393.

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