Da Cartesio a Fichte
La confusione fra l’io umano e l’io divino
Parte Terza (3/4)
La posizione di Fichte
Per questo, se il cartesiano ammette l’esistenza di Dio, come in Kant, Dio è solo un’idea suprema della ragione; non è una persona che sta davanti a me. Non è il mio creatore ma un prodotto della mia mente. Non è un Dio che mi salva, ma un Dio che salvo io. Fichte la pensa allo stesso modo. Per questo in tale concezione di Dio è chiaro che io non posso parlare a Dio e pregarlo, né Dio può parlare a me e rivelami qualcosa che Lo riguardi, a cui io debba credere.
La Massoneria ha fatto proprio questo concetto di Dio e per questo, come è noto, per lei una rivelazione divina è impossibile. Per questo Fichte, che aderì alla massoneria, tanto da scrivere una Filosofia della massoneria[1], ha scritto anche un Saggio di una critica di ogni rivelazione[2].
Per l’idealista il soggetto parla sempre in fondo solo con se stesso. Non conosce come il realista una vera alterità. Siccome non ammette un reale extramentale, non coglie l’altro nella sua oggettiva realtà in sé, così com’è, ma si costruisce mentalmente un altro di comodo e parla con questo altro io immaginario, che ovviamente gli dà sempre ragione.
È interessante tuttavia notare come in Fichte, a differenza da Cartesio che conserva la prospettiva della comunicazione umana e della reciprocità amicale ereditata dal realismo e dal cristianesimo, l’alterità non appare come diversità costruttiva nella condivisione della comune natura umana, ma come negazione dell’io, il famoso «non-io». Dice Fichte:
«Questa reciprocità dell’io in sé e con se stesso, in cui esso si pone, assume come finito e infinito – reciprocità che consiste quasi in una lotta con se stessa e che perciò riproduce se stessa, poiché l’io vuole unificare l’inconciliabile, e ora tenta di accogliere l’infinito nella forma del finito, ora, respinto, pone di nuovo l’infinito fuori di quella forma e nello stesso momento tenta un’altra volta di accoglierlo nella forma della finità – questa reciprocità è la facoltà dell’immaginazione»[3].
Con ciò stesso sono evidenti le conseguenze in campo morale: il rapporto umano non è basato sulla concordia e su comuni valori, ma sul conflitto, sulla guerra, sulla reciproca ostilità per principio ed esclusione reciproca. Nei rapporti sociali all’et-et si sostituisce l’aut-aut. O sei padrone o sei schiavo. Hegel raccoglierà questo spunto di Fichte per la formulare la sua dialettica del servo e del padrone e Marx attingerà ad Hegel per la sua teorizzazione della lotta di classe. Non è questione di opporre il vero al falso o il giusto e l’ingiusto: ciò è più che doveroso; ma l’errore sta nell’escludere l’altro solo perchè è altro o diverso oppure di concepire l’altro come il nemico, un principio orribile, che, se applicato fino in fondo, porterebbe alla distruzione totale della convivenza umana.
L’idealista pone davanti alla sua mente un altro io da lui immaginato o creato e crede di parlare con quest’altro come fosse reale, un io diverso da lui, mentre in realtà si tratta solo di un pensato dalla sua mente al quale ha dato corpo di realtà. Ma il guaio è che può capitare all’idealista che, data la falsità del suo modo di pensare, l’alterità con la quale entra in rapporto non sia veramente un’altra reale persona umana, né tanto meno è Dio, ma è quel falsario e omicida del quale parla Cristo come di colui che è menzognero ed omicida per principio, ossia il demonio, che ama mascherarsi da angelo della luce.
Hegel invece, con perfetta coerenza e consequenzialità logica partendo dal principio cartesiano del sum identico al cogito, porta il cartesianismo al suo perfetto ed insuperabile compimento, perché il cerchio del pensare e dell’essere – vedi il simbolo della svastica - si chiude ed oltre non si può andare, salvo che ricominciare daccapo.
Gentile ed Husserl che riprendono Hegel, non vi aggiungono nulla, ma retrocedono, Gentile al momento dell’agire ed Husserl al momento dell’essenza. Anche Heidegger e Severino non aggiungono nulla, perché retrocedono al momento dell’essere, il primo come eterno, il secondo come temporale, mentre Hegel supera l’essere nel divenire, la realtà nella storia. Avviene così che in Hegel Parmenide si mescola ad Eraclito, il pensare coincide con l’essere, col l’uno, col differente, col molteplice, col vero, col bene, col divenire, con l’agire e col volere. L’uomo s‘identifica col mondo e con Dio.
L’Io fichtiano deriva dall’io cartesiano
Quale eredità ha lasciato Cartesio ai posteri? Il progetto di basare la filosofia sull’autocoscienza anziché sull’esperienza del mondo esterno. Cartesio dopo aver scartato il realismo a causa del dubbio, lo ripristina con la pretesa di fondarlo sul cogito.
I filosofi che accettano il principio cartesiano del cogito fioriscono soprattutto in Inghilterra e in Germania. In Inghilterra abbiamo Locke, Berkeley e Hume, che mantengono la tradizione empiristica inglese che ha origine in Ockham, e non hanno difficoltà a riconoscere il mondo esterno. Si dissolve la metafisica realista che viene sostituita con un mondo interiore ideale. In Germania abbiamo Leibniz e Wolff, che conservano la metafisica ma le danno una fondazione cartesiana senza per questo ripudiare il realismo che riconosce il mondo esterno fisico.
Spinoza in Olanda raccoglie il cogito cartesiano in chiave panteistica: l’autocoscienza appartiene alla sostanza divina, mentre l’autocoscienza umana è una modalità accidentale della divina sostanza, che è sostanza anche della natura.
Kant accoglie il cogito cartesiano; tuttavia non ha dubbi circa l’esistenza della cosa in sé fondamento del fenomeno oggetto della scienza sperimentale, ma come Cartesio respinge una metafisica basata sull’esperienza della cosa in sé, che per Kant è solo pensabile ma non conoscibile.
Osserviamo a questo punto che il radicalismo, l’andare a ciò che è primo è un dovere per il filosofo. Ma si cade nella stoltezza e nella contraddizione, se si ha la pretesa di trovare un primo che sia prima del primo, come se il primo avesse bisogno di essere dimostrato. E così si finisce per usare del primo per dimostrare il primo dovendo necessariamente ricorrere al primo. Ma allora il primo non è più primo e diventa secondo. Viene quindi distrutto e sostituito da un falso primo.
Ciò che è mediato è causato. Ciò che è primo ed iniziale per noi è evidente e in base ad esso si dimostra ciò che non è evidente, ciò che è mediato, derivato, originato e causato. Questo lo sapeva anche Cartesio. Ma qual è stato il suo sbaglio? Di voler dimostrare quello che è evidente, ossia la veracità dei sensi e l’esistenza delle cose esterne, e di dare per evidente base del sapere ciò che è da dimostrare, ossia l’autocoscienza.
Cartesio ha invertito l’ordine e il processo del sapere ponendo come base un risultato, ossia l’autocoscienza, e bisognoso di dimostrazione ciò che è evidente punto di partenza, ossia l’esistenza del mondo esterno e del proprio corpo.
La fondazione del sapere in linea con Cartesio
Anche Fichte avvertì come Kant e come Cartesio il problema di come dar fondamento al sapere. La scienza dev’essere una e universale, assolutamente certa, sistematica, dimostrativa, esauriente, deve abbracciare tutto, basata su di un solo principio ed originata da un solo primo principio assolutamente innegabile ed evidente, in base al quale dimostrare tutto e dal quale ricavare ogni possibile conclusione o conseguenza. Deve altresì contenere implicitamente o potenzialmente tutto. Dice Fichte:
«Noi dobbiamo ricercare il principio assolutamente primo, assolutamente incondizionato di tutto l’umano sapere. Dovendo essere principio assolutamente primo, esso non si può dimostrare né determinare. Esso deve esprimere quell’atto, che non si presenta, né può presentarsi, tra le determinazioni empiriche della nostra coscienza, ma piuttosto sta alla base di ogni coscienza e solo la rende possibile»[4].
Possiamo chiederci che cosa si deve intendere per «principio del sapere». Possiamo intendere tre cose: primo, ciò a cui inizialmente attingo per ricavare tutto il mio sapere. Questa è la fonte del sapere. Si tratta dell’oggetto del sapere, cioè la realtà o l’ente. In base a questo principio so che esiste qualcosa. È il principio kantiano della cosa in sé. Difetto di Kant è che non riconosce l’essenza della cosa in sè, la quidditas rei meterialis, come risulta dal punto secondo.
Difetto di Fichte, come è noto, è che della cosa in sé egli non ne vuol sapere, come fosse qualcosa di totalmente inconoscibile. È vero che la cosa in sé kantiana non offre un’essenza all’intelletto, però gli offre l’esistenza e resta sempre sorgente del sapere sperimentale. Fichte avrebbe dovuto esigere la conoscibilità dell’essenza e non respingere l’esistenza, perchè così la nostra mente si chiude in sé stessa e vede bloccato l’accesso al reale.
Secondo, ciò su cui mi baso per procedere nel sapere ovvero che cosa so come punto di partenza del sapere. Questo è il primo geneticamente conosciuto. Questa è la cosa materiale percepita dai sensi. È ciò che non ha capito Cartesio.
Terzo, quella verità fondamentale, che è talmente certa ed evidente, che non ha bisogno di essere dimostrata, ma mi serve per dimostrare qualunque cosa e quindi per progredire con sicurezza nel sapere. È il principio di non-contraddizione ovvero il principio del retto pensare. Questo è il metodo del sapere.
È interessante come Fichte concepisce il rapporto fra il mio io empirico e l’Io assoluto, dove appare chiaramente come egli erge l’io umano ad Io assoluto. Dice:
«Si ode domandare: che cosa ero io dunque prima che giungessi all’autocoscienza» (cioè alla coscienza di essere l’Io assoluto)? «La risposta naturale a questa domanda è: io non ero affatto, poiché io non ero Io. L’Io è soltanto in quanto ha coscienza di sé. La possibilità di quella domanda si fonda sopra una confusione fra l’Io come oggetto e l’Io come soggetto della riflessione del soggetto assoluto, ed è in sé del tutto insussistente. L’Io rappresenta se stesso, in quanto accoglie sé stesso nella forma della rappresentazione e solo allora è qualcosa, un oggetto; la coscienza ottiene in questa forma un sostrato che è, anche senza reale coscienza e che, per di più, vien pensato corporeamente. Ci si raffigura un tale stato e si domanda che cosa era l’Io, cioè che cosa è il sostrato della coscienza» - è evidente che qui si tratta della coscienza umana -. «Ma anche allora si pensa in maniera aggiuntiva senza accorgersene, l’assoluto soggetto come intuente quel sostrato: si pensa quindi senza accorgersi precisamente ciò da cui si pretendeva di aver fatto astrazione; e ci si contraddice. Non si può pensare assolutamente nulla senza pensare in pari tempo il proprio Io come cosciente di sé stesso; non si può mai astrarre dalla propria autocoscienza»[5].
L’io corporeo diventa l’Io assoluto
Appare qui evidentemente che Fichte considera l’autocoscienza umana corporea, cioè la coscienza che io ho di essere un composto di anima e corpo, come incoscienza o assenza di coscienza dell’io, giacchè per Fichte l’io è l’Io assoluto, mentre chi si chiede che cosa era prima di aver coscienza di essere l’Assoluto o di essere salito alla dignità dell’Assoluto, dà prova di non sapere chi è, ossia uno che non sa che cosa è l’io, come se egli avesse bisogno di un sostrato materiale o corporeo, mentre il vero Io non ha bisogno di alcun corpo, perché sussiste da sé nella sua assolutezza e il cosiddetto corpo è solo l’oggettivazione o la rappresentazione empirica dell’Io assoluto, del tutto indipendente da quell’io corporeo o da quel sostrato materiale.
Se esiste una sostanza, per Fichte come per Spinoza, questa non è altro che l’unico Io assoluto, del quale i singoli io empirici non sono che determinazioni, apparizioni, oggettivazioni o rappresentazioni accidentali e temporanee e contingenti.
Come Kant, anche Fichte parte dall’io cartesiano. Come sappiamo, per questi l’io è ciò che l’intelletto vede quando volge lo sguardo su sé stesso pensante. Per Cartesio questo è il punto di partenza e la base del sapere. Per lui io so ogni cosa sulla base del pensiero di me stesso, del mio io, della mia autocoscienza.
Cartesio respinse quindi il principio o fonte realista, oggettiva del sapere, che sono le cose sensibili esterne e il proprio corpo, e volle dare al sapere un principio puramente soggettivo, la coscienza del proprio pensare, da cui la coscienza del proprio essere.
Kant si appropriò di questo principio, senza tuttavia rinunciare del tutto al principio oggettivo, la cosa in sé, ossia la cosa esterna che mi sta di fronte. Essa esiste fuori di me, in modo evidente, senza che occorra affatto dimostrarne l’esistenza, come aveva tentato Cartesio. In tal modo Kant da una parte assume l’idealismo cartesiano basandosi sul cogito-sum, che lo porta a respingere il realismo, mentre dall’altra conserva il realismo ammettendo la cosa esterna, della quale però resta ignota l’essenza. E con ciò non dà una giustificazione sufficiente della cosa in sé, che provocherà il rifiuto fichtiano.
Sostituzione totale dell’idealismo al realismo
Fichte infatti interverrà a questo punto per eliminare del tutto il residuo di realismo kantiano della cosa in sé e per puntare con maggior decisione sull’idealismo, per il quale, come apparirà chiaramente in Hegel, la cosa finirà per identificarsi col concetto della cosa. Per Fichte io non devo avere nulla fuori di me e indipendente da me, ma tutto dev’essere in me e posto da me.
Egli non dà nessun peso all’obiezione immediata che viene dal buon senso: ma io, pover uomo, chi sono per avere un potere simile? E Fichte risponderebbe: tu credi di essere un pover uomo, ma nel tuo fondo sei Dio stesso.
Occorre comunque riconoscere con Fichte che effettivamente non ha senso ammettere una cosa materiale extramentale, della quale si conosce l’esistenza ma non l’essenza. Per il realismo di San Tommaso l’oggetto dell’intelletto umano è la quidditas rei materialis. Della cosa in sé per lui si può conoscere la natura o essenza specifica, perché per Tommaso la cosa (res, da cui realtà) è precisamente l’oggetto del nostro intelletto, al quale peraltro non è affatto impedito salire oltre ed è anzi desiderabile elevarsi alla conoscenza di cose invisibili e spirituali, fino a raggiungere Dio.
Fichte naturalmente non nega che il nostro intelletto ha per oggetto la cosa o la realtà, anzi contro Kant dirà che io conosco la cosa in sé nella sua essenza solo che per lui essa non sta davanti a me indipendentemente da me, ma in quanto posta da me in me. Con ciò potrà vantarsi, benchè a sproposito, di dire che l’idealista è più realista dei realisti.
Quello che manca sia a Kant che a Fichte è il fatto che essi non si accorgono che la res è una proprietà trascendentale dell’ente, per cui non si accorgono che l’oggetto fondamentale e più universale del nostro intelletto, al di là della cosa sensibile o del fenomeno, è lo stesso ente. Non parlano mai dell’ente e questa è una cosa grave per un filosofo che vuol dar fondamento al sapere.
Per Kant io vedo la cosa, la sperimento, la conosco come fenomeno, ma non posso conoscerne l’essenza così come essa è in sé. La conosco solo così come essa appare ai miei sensi. Essa è un pensato (noùmeno), ma non un conosciuto. È il famoso «fenomeno» kantiano: la cosa così come appare a me, ma non un me individuale, bensì un io universale, il me o io umano in quanto umano, la ragione in quanto tale, quello che gli idealisti chiameranno «io trascendentale». Quindi appare a tutti allo stesso modo. Quindi non si tratta, almeno nell’intento di Kant, di semplice apparenza soggettiva o sembianza (Schein), ma di verità oggettiva (Erscheinung).
Tuttavia per Kant, come anche per Cartesio, di quella realtà spirituale che costituisce il mio stesso spirito (res cogitans), ho coscienza immediata e certa. Quindi per Kant la res che resta ignota non è il proprio spirito, la propria ragione, il proprio io, il proprio pensare ed essere, ma è la cosa materiale esterna, la res extensa.
Fichte fa confusione nella dottrina dell’io
Come osserva giustamente il Padre Fabro, Fichte ha letto nel sum di Cartesio un volo. Io sono non perché sono stato fatto essere, ma perchè ho voluto essere e voglio essere. Non ho l’obbligo di essere, ma sono libero di essere o non essere. Sono padrone del mio essere. Questo è ciò che volle affermare il giovane intellettuale Carlo Michelstaedter togliendosi la vita nel 1910.
Da qui la concezione fichtiana dell’essere come agire, porre, volere, fare (tun). Non è la volontà e la libertà che segue alla verità, ma la verità che è effetto della volontà e della libertà. La libertà di pensiero non è l’assoggettarsi al vero e all’essere, ma è la libertà di determinare l’essere e dar principio all’essere. Pensare è fare. Produrre il pensiero è produrre l’essere. Ciò riappare nell’attualismo di Giovanni Gentile. Questa concezione dell’essere come volere sarà ripresa da Schelling fino a Nietzsche.
Fichte è rimasto abbacinato dal modello dell’Io assoluto, che in realtà è l’Io divino e si è dimenticato che esiste anche un io umano e un io angelico. Se l’Io assoluto è puro spirito creatore del mondo, anche l’io umano e l’io angelico sono enti dei quali si può predicare l’egoità, che in sé stessa non significa altro che ciò che il soggetto vede quando riflette su sé stesso.
Questo tipo di egoità finita non crea assolutamente niente, e non in senso metaforico, ma si trova davanti un mondo che ha creato Dio, mentre l’egoità umana raggiunge la coscienza di sé partendo dall’esperienza sensibile, dato che l’intelletto si serve dei sensi per riflettere su sé stesso.
Occorre inoltre osservare che l’esistenza umana non si esaurisce nella coscienza dell’io, ma ha anche un risvolto sociale. Il sapere non è semplicemente un atto dell’io, ma è un’esperienza collettiva, è un atto del noi. Il sapere non dev’essere fondato sulla prima persona del verbo essere, ma sulla terza.
Quando espongo la scienza, devo mettere da parte il mio io, perché devo esporre ciò che è universale e comune a tutti, ciò che tutti vedono e condividono. Per questo lo scienziato non dice «io la vedo così», ma «le cose stanno così». Il parlare di se stessi appartiene all’autobiografia, non alla scienza; a meno che io non consideri il mio io come la totalità del reale e l’unica cosa da sapere.
Fine
Terza Parte (3/4)
P. Giovanni Cavalcoli
Fontanellato,
31 agosto 2025
Cartesio ha invertito l’ordine e il processo del sapere ponendo come base un risultato, ossia l’autocoscienza, e bisognoso di dimostrazione ciò che è evidente punto di partenza, ossia l’esistenza del mondo esterno e del proprio corpo.
Non bisogna confondere il principio del sapere col principio dell’essere. Il principio dell’essere è Dio creatore; il principio del sapere è il triplice principio che ho detto sopra. Solo Dio può essere principio dell’essere. Io posso porre il mio pensiero, ma non il mio essere. Qui sta il grave errore di Fichte, il quale ricava dal cogito cartesiano la pretesa che l’io ponga il proprio essere.
La verità per Cartesio non è l’effetto di un’adeguazione dell’intelletto all’essere presupposto, ma di una decisione che l’essere sia. Il dubbio irrazionale è risolto in modo irrazionale per un atto di volontà.
Da qui la concezione fichtiana dell’essere come agire, porre, volere, fare (tun). Non è la volontà e la libertà che segue alla verità, ma la verità che è effetto della volontà e della libertà. La libertà di pensiero non è l’assoggettarsi al vero e all’essere, ma è la libertà di determinare l’essere e dar principio all’essere. Pensare è fare. Produrre il pensiero è produrre l’essere. Ciò riappare nell’attualismo di Giovanni Gentile. Questa concezione dell’essere come volere sarà ripresa da Schelling fino a Nietzsche.
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