Cristologia e soteriologia
Conferenza di Padre Tomas Tyn, OP
Presso Istituto Tincani - Bologna, 21 gennaio 1988
Seconda Parte (2/2)
Ora, io sono giusto, riguardo a me, se rivendico per me i miei diritti. Per esempio, non so, qualcuno mi contesta qualche proprietà? Bene, andiamo in tribunale e decidiamo secondo giustizia a chi spetta quella determinata proprietà. Vedete, quindi io non faccio un peccato se cito in tribunale uno che vuole rubarmi qualche cosa. Che cosa faccio infatti in questo caso? Sono giusto, cioè voglio che si chiarisca secondo giustizia di chi è quella determinata cosa. Quando assumo l’atteggiamento della giustizia rispetto a me, allora rivendico il mio diritto, il che, in fondo, è una cosa buona in fondo.
Però c’è una cosa ben ancora più perfetta di questa ed è quella di rinunciare al proprio diritto, vale a dire: va bene, io sono ben convinto che quella determinata cosa mi spetta secondo giustizia, ma tanto per evitare dei mali più gravi rinuncio, lasciamo stare. Vedete, questo condono, diciamo così, del proprio diritto, la rinuncia a rivendicarlo, è proprio l’atteggiamento della misericordia.
Vi ripeto: non sempre si può attuare, capite, soprattutto, notate bene, per capire veramente la mens Evangelii, e non cadere in certe storture perfezionistiche, perché talvolta c’è una specie di pseudospiritualismo attorno al Vangelo. Il Vangelo parla della povertà, sicchè tutti - dicono alcuni - devono essere ugualmente poveri; no, non è detto, sapete; i frati fanno bensì voto di povertà, e anche le famiglie dovrebbero avere un certo stile di austerità, o come dire, di carità, verso il prossimo anche nel campo economico. Però è evidente che un padre di famiglia deve provvedere al sostentamento della sua famiglia.
Quindi è chiaro che ci sono situazioni diverse, nell’attuazione dei consigli evangelici, che si dicono consigli proprio perché non sono precetti di stretto rigore. Così similmente Gesù ci invita a porgere l’altra guancia. Vedete, questo è l’atteggiamento della misericordia, però badate bene, io dico spesso, tanto per esemplificare le cose, che mentre è cosa buona porgere la propria guancia, è ingiusto porgere quella del prossimo. Perché potrebbe succedere che uno dice: vieni qua che io porgo la tua guancia agli altri. Ora questo non va più bene.
Allora, in termini più rigorosi, potremmo dire così: se è una cosa bella, nobile ed evangelica rinunciare al proprio diritto, non è mai lecito rinunciare al diritto di una terza persona. Perché? Perché quel diritto non mi appartiene, non è proprietà mia. Ed è la ragione per cui un giudice non può dire: io amo il mio prossimo, quindi, via! Chiudiamo le carceri, no, capite, non è possibile, proprio perché lì c’è di mezzo la questione del diritto non suo, perché il giudice non tutela il diritto suo, ma quello della società intera.
Allora, voi mi avete capito perfettamente, quindi sapete che il Vangelo non è in contrasto con certe sane istituzioni naturali della società. Tuttavia c’è nell’agire etico dell’uomo questo duplice atteggiamento: è lecito rivendicare il proprio diritto secondo giustizia, ma è ben più perfetto rinunciare al proprio diritto in forza della misericordia.
Quindi la misericordia si colloca per così dire al di là della giustizia. Allora, il Signore quando ci ha salvati, ci ha usato una stupenda misericordia: non solo ci ha perdonati, ma pensate, ci ha perdonarti mandandoci un Salvatore e non solo un salvatore uomo, ma un Salvatore che è Dio e uomo. Dio non ci poteva dare di più, capite, ci ha dato proprio ciò che aveva di più caro, il suo Figlio unigenito. Splendida quella esclamazione di San Giovanni, perchè di esclamazione si tratta, quando egli dice: Iddio ha tanto amato il mondo da dare il suo Figlio unigenito! Vedete, cari, è proprio così. Allora il Figlio unigenito di Dio è espressione di Dio, è Dio stesso, che poi è l’essere stesso di Cristo[1]. Vedete, la grazia dell’unione ipostatica e il concepimento di Cristo nel grembo di Maria Vergine sono opera di misericordia suprema di Dio assolutamente immeritata verso l’uomo peccatore.
È interessante come noi, con il nostro peccato, ci siamo resi in qualche modo meno degni di questa misericordia, ma nel contempo più bisognosi di essa. E’ una cosa interessante, è così che San Tommaso spiega il detto liturgico, vi ricordate il prefazio pasquale? Esso dice, appunto: “O felix culpa, quae talem meruisti Redemptorem!” .... O felice colpa, che hai meritato di avere un tale così grande Redentore. Vedete: o felice colpa. Non che la colpa ci renda più degni di Cristo, ci rende meno degni, ma più bisognosi.
Allora, il Signore, proprio vedendo il nostro peccato, per pura misericordia, per puro amore, ci dona il Salvatore, ci dona la salvezza in Cristo. Allora, però notate un’altra cosa, perché, sapete, qui, come in generale nella cristologia, è necessario tenere in perfetto equilibrio questa unità delle due nature con la Persona di Cristo. Così nella funzione redentiva del Salvatore bisogna ben intravedere entrambi gli atteggiamenti di Dio, - misericordia e giustizia[2] - che in Dio solo un tutt’uno, mentre nell’uomo sono divisi. Vedete, noi siamo proprio dei poveretti, intellettualmente parlando, perché quello che in Dio è uno, in noi è sempre molteplice; fatalmente noi analizziamo, cioè sciogliamo ciò che invece è sintetico, cioè uno.
Ecco dunque che in Dio c’è perfetta sintesi e unità di misericordia e giustizia, vedete. In noi invece, questi due aspetti sono sempre quasi contrapposti l’uno all’altro, perciò succede che c’è chi dice, sì, Iddio ci ha salvato per la sua misericordia; ma perché allora ci doveva essere la salvezza[3] del giusto, perché il Cristo è stato crocifisso? perchè ci sono gli innocenti che soffrono?
Costoro non hanno capito un’altra cosa e cioè che Iddio, quando in Cristo ci usa misericordia, in quella stessa misericordia Egli realizza anche il sommo della giustizia, ed in ciò sta quello che ci sbalordisce. Vedete infatti che il Signore Dio poteva realizzare anche una misericordia facile: era Lui l’offeso, e il perdono avviene quando l’offeso si rappacifica con l’offendente dicendogli: figliuolo: ti perdono e non pensiamoci più[4].
Il buon Dio avrebbe potuto fare così con noi: senza il Cristo, senza la croce, senza la risurrezione: sarebbe stata pura misericordia, stupenda misericordia, ma non ci sarebbe stato neanche un briciolo di giustizia. E il Signore fa invece le sue opere sempre nel modo più perfetto che ci possa essere. E bisogna rispettare questa perfezione di Dio, sapete. Cioè, non assumere il nostro modo banale umano di ragionare dicendo magari: a me piacerebbe di più l’essere redento con una redenzione facile, senza sofferenza e senza croce, capite? Sarebbe bello per noi! Ma chi decide - e per fortuna aggiungo io - non siamo noi, ma è il Signore.
Quindi bisogna cercare ancora con umiltà, non dire: a me piacerebbe, ma: a Dio è piaciuto, e cercare di capire per quanto ci è possibile, perché a Dio è piaciuto così. E il perché è, vi ripeto, che ciò che è in noi una perfezione frantumata e come spezzettata, in Dio è una perfezione unica, e il Signore vuole sempre anche nei suoi effetti: nella creazione, nella redenzione e nella santificazione, il maggior bene possibile, cioè vuole non solo esprimere la sua misericordia, ma anche la sua sovrana giustizia.
Quindi è bene conservare sempre un atteggiamento serio[5], cioè vedere in Dio sì la bontà della sua misericordia, ma anche l’austerità della sua giustizia. Questo poi concerne anche noi nel nostro atteggiamento morale, perché la speranza è certamente una grande e bellissima virtù, bisogna sperare, Dio ci ha dato tutti i mezzi della salvezza; però guai se siamo temerari, guai se pensiamo di poterci salvare senza penitenza e senza merito.
Proprio nell’atteggiamento etico dell’uomo spesso subentra questo errore, oppure l’errore opposto di diffidare della misericordia di Dio: io l’ho combinata troppo grossa: a me il Signore non può perdonare: questa è disperazione[6]. Vedete. Ma anche la temerarietà è un grave peccato. Il dire: il Signore ci ha dato il suo Gesù e allora senza che noi dobbiamo darci più da fare, siamo già salvati.
Questo è in fondo anche l’errore di Lutero, se ci
pensate bene. Cioè il libero arbitrio non c’entra più, addirittura il famoso “pecca
fortiter, sed fortius confitere”: cioè non ha importanza il tuo peccato: basta
che tu creda, senza che occorrano le opere buone. Invece noi siamo sì salvati,
ma con una salvezza che ci impegna al massimo. Opera di misericordia e nel contempo
di giustizia.
Notate qual è la gravità del peccato dell’uomo: anche questa è una realtà che l’uomo di oggi stenta a capire; eppure è alla base del mistero di Cristo Salvatore e cioè l’infinità del peccato: il peccato è un’offesa infinita fatta a Dio; è per questo che è venuto Gesù, altrimenti non era necessaria, onde soddisfare alla giustizia, un’espiazione infinita.
Il Signore ha offerto un’espiazione e una redenzione infinite. Che bisogno c’era bisogno di ciò? C’era bisogno, perchè anche la colpa da espiare era infinita; altrimenti sarebbe illogico. Capite? Sarebbe illogico che Iddio avesse voluto secondo la giustizia iscritta nella sua misericordia, una redenzione infinita per una colpa finita. Infatti, la stessa infinità della redenzione di Cristo, la divinità, se volete, di Cristo, la persona divina di Cristo rivela l’infinità della nostra offesa.
Che cosa dire di ciò? Il peccato dell’uomo è infinito per un duplice motivo. Diciamo che il motivo decisivo è il bene offeso con il peccato, cioè che noi con il nostro peccare offendiamo Dio stesso. Vedete, noi ci ribelliamo a Dio, contrastiamo Dio. L’offeso è Dio, l’infinito Bene. Quindi l’offesa di un Bene infinito risulta un male infinito, dalla parte dell’oggetto.
Ora, è chiaro però che i difetti fisici[7], sono, diciamo così, non dico offesa a Dio, ma si sottraggono al progetto di Dio e però non sono infiniti. Che cosa c’è allora nella colpa che fa sì che questo contrasto con Dio sia infinito anche dalla parte dell’uomo che pecca? E’ la nostra libertà. Vedete, noi siamo veramente dotati della libertà dell’arbitrio; la nostra sorte è nelle nostre mani, come dice la Scrittura. Vedete, noi possiamo veramente decidere del nostro destino. È una cosa terribile. Adesso ci inoltriamo di nuovo su di un terreno difficile; comunque proviamo a dirlo con molta cautela spiegandolo. Possiamo dire che l’uomo non è creatore dell’essere. Certo, solo Dio può creare l’essere; ma l’uomo è creatore del suo bene o male morale; è creatore della sua moralità; cioè l’uomo decide del suo essere buono o cattivo.
Vedete che è una cosa importante; quindi, notate bene come questo è un mistero pure stupendo, come nella interiorità dell’uomo e nella spiritualità delle sue facoltà, cioè nell’intelletto e nella volontà, che poi insieme sono la radice della libertà, come quindi soprattutto nella libertà l’uomo veramente è imago Dei, immagine di Dio, ovvero come Dio è creatore sul piano dell’essere fisico, così l’uomo è creatore sul piano dell’essere interiore del suo bene o male morale. Vedete che in questo senso veramente, ma solo in questo senso, l’uomo è capace dell’infinito.
Siamo portatori non dell’Infinito stesso, ma di una capacità protesa verso l’infinito e questo è vero; ma, ve lo dico tra parentesi, vedete, bisogna sempre notare dove stanno le radici di certi errori che spesso si divulgano al giorno d’oggi. Pensate per esempio all’esistenzialismo e all’ateismo di tipo esistenzialistico, come si manifesta soprattutto in Sartre o in Kant. Ecco, questo tipo di ateismo parte da un presupposto ovviamente non corretto, ma neanche del tutto privo di fondamento, cioè che l’uomo deve essere Dio e siccome però l’uomo non può esserlo, e pure questo è vero, si dichiara che l’uomo è assurdità, che l’uomo è vanità, che l’uomo è passione inutile, che l’uomo è fallimento.
Dov’è la premessa falsa? La premessa falsa sta proprio nel non distinguere questo duplice tipo di essere, cioè la libertà che, per così dire, crea l’essere, ma l’essere morale; mentre l’essere esterno solo Dio ce lo può dare, per cui noi non ne siamo padroni. Quindi siamo padroni di una dimensione, non dell’altra, sapete. Questi tali, invece, badando alla padronanza, cioè alla libertà che l’uomo ha su se stesso, hanno detto allora, che se così è, se cioè l’uomo è padrone di sè, vuol dire che l’uomo è Dio. Solo che poi hanno constatato che in realtà l’uomo non è Dio, e allora ecco l’assurdità dell’essere umano.
Quindi bisogna invece mantenere bene, secundum veritatem, l’una e l’altra cosa, cioè che l’uomo certo non è Dio, ma è portatore di una somiglianza con il suo Creatore, che è l’assolutezza del suo intelligere et velle, cioè della sua intelligenza, volontà e libertà, ma nel contempo l’uomo non è ovviamente l’assoluto quanto all’essere: la sua entità, per così dire, è una entità finita.
Allora, in questo senso, la libertà umana, in quanto
protesa al Bene assoluto, se fallisce con il peccato in questa tensione all’assoluto,
compie un male altrettanto assoluto, capite, da entrambe le parti, sia dalla
parte del Bene offeso, sia dalla parte del potere di chi offende, perchè il
nostro potere morale è davvero infinito, simile a quello di Dio.
Perciò, una colpa infinita esigeva una riparazione secondo giustizia; la misericordia da sola poteva anche farne a meno, ma secondo giustizia, occorreva una espiazione infinita. Ecco allora, adesso capite perchè appunto Sant’Atanasio si scaglia contro gli ariani quasi supplicandoli, cioè dice “non distruggetemi il mio Salvatore!” Perchè? Perché, se il Verbo è creatura, noi non siamo salvati con perfetta giustizia, vedete, perchè l’espiazione non è infinita. Una creatura che, per quanto grande, è sempre finita, non può espiare se non in un modo finito, cioè in maniera finita.
Allora, sempre in connessione con questa esigenza atanasiana del Salvatore che deve essere vero Dio e vero uomo, San Tommaso fa questo ragionamento: “Qual è la convenienza che il Cristo sia Dio e uomo? Ebbene, chi doveva essere salvato è l’uomo, non è certo Dio che ha bisogno di salvezza; i peccatori siamo noi, quindi chi doveva essere salvato, chi doveva espiare per il suo peccato è l’uomo; ma chi poteva espiare adeguatamente non è più l’uomo, ma solo Dio.”. E’ questo il paradosso: noi siamo capaci di fare per conto nostro il male; ma il bene lo possiamo fare solo con l’aiuto di Dio.
Quindi eravamo perfettamente in grado di peccare, ma una volta caduti, chi ci poteva tirare su, per così dire, dalla nostra caduta era solo Dio. Allora, in questo senso l’uomo doveva espiare, ma non poteva. Dio poteva espiare, ma non doveva. Il Dio uomo poteva e doveva espiare. Vedete l’unità delle due nature nell’unica Persona, vedete come la cristologia, cioè la realtà di Cristo, vero Dio e vero uomo, illumina la soteriologia, cioè la dottrina della salvezza?
Cristo, proprio in quanto uomo e Dio, è Salvatore, cioè si rende solidale, per così dire, con l’uomo peccatore, per cui egli, benchè innocente, diviene oggetto dell’ira del Padre suo in vece nostra, ma nel contempo il Cristo, in quanto Dio, può anche espiare.
Quindi Cristo si mette in condizioni tali da dover
espiare, sostituendosi a noi, e nel contempo, come Dio, è in grado di operare
la Redenzione, cioè la infinita espiazione. Ecco, miei cari. Allora, vedete
come queste due cose sono perfettamente in armonia tra loro, e se ne crolla
una, crolla anche l’altra. Vedete, perciò, che la realtà di Cristo, Dio e uomo,
è tale proprio perchè l’offesa dell’uomo contro Dio è infinita; quindi, se Dio
voleva realizzare una Redenzione perfetta, cioè misericordiosa e giusta, era
necessario per la giustizia della espiazione che un prezzo infinito fosse
offerto in Redenzione per un peccato infinito.
Ora tale prezzo lo poteva offrire al Padre solo il Figlio suo Unigenito, rivestitosi però della nostra umanità e divenuto uno di noi. Vedete allora la logica divina, che pure rimane sempre misteriosa e straordinaria, la logica divina nella Redenzione.
C’è però una difficoltà teologica; ve ne accenno solo brevemente, per poi riassumere l’opera redentiva di Cristo a modo appunto di espiazione e di redenzione. C’è una disputa, che forse vi interesserà, tra due scuole teologiche.
Ecco, siamo coinvolti anche noi Domenicani, quindi non
sarò del tutto imparziale, ve lo dico subito; comunque queste due scuole la
pensano un po’ diversamente, però, diciamo, ci sono buone ragioni per l’una e
per l’altra parte, Del resto poi, le due dottrine si completano abbastanza
bene.
San Tommaso dice che il motivo dell’Incarnazione, cioè il motivo per cui il Verbo si fece uomo, è essenzialmente redentivo; cioè Gesù venne in questo mondo per redimerci. Dice, infatti, che leggendo la Scrittura, il motivo principale risulta sempre questo: il Verbo si fece carne per redimere l’uomo, per salvare l’uomo.
Invece la scuola francescana, capeggiata in particolare da Duns Scoto, insegna un altro motivo della Redenzione. Sembrerebbe così una lite da poco, tra teologi che si sbizzarriscono a litigare, senza poterne fare a meno. Ed è un po’ vero che esiste una certa “rabbia” teologica, ma è un segno di salute teologica solo quando si litiga fraternamente.
Comunque, non è solo per questo, vedete, ma c’è molto di più in questa contrapposizione. Allora, la scuola di Duns Scoto, dice invece questo, e cioè che il Verbo si sarebbe fatto uomo anche se l’uomo non avesse peccato. Per quale motivo, allora? Non più per motivo di redenzione, ma bensì per il motivo della ricapitolazione, infatti San Paolo dice, che effettivamente le creature saranno tutte ricapitolate in Cristo, ovvero che la natura umana di Cristo è davvero - lo dico sempre - paragonandola un po’ all’architettura, la chiave di volta, capite, proprio ciò che sostiene tutta la gerarchia del creato, ed è una immagine molto bella e vera anche, cioè di fatto non c’è nessun dubbio, ma è così, cioè la natura umana assunta dal Verbo è al di sopra di tutte le creature, anche angeliche, vedete, è proprio la chiave di volta che sostiene l’universo.
Solo che la questione è questa: il Verbo doveva farsi uomo solo per motivo della ricapitolazione, oppure di fatto ricapitola, ma il motivo vero e profondo è quello della Redenzione? Questa è la differenza tra le due scuole. Ora, vedete, quello che anche noi tomisti ammettiamo ovviamente è che di fatto il Cristo ricapitola a sè tutte le cose, su questo non ci sono dubbi. La questione è solo quella del motivo.
Ora, quello che è importante è non imporre degli obblighi a Dio; vedete, bisogna sempre lasciare Dio libero[8]: questo sta a cuore a San Tommaso e ai suoi seguaci: bisogna sempre garantire l’assoluta libertà di Dio e nel contempo c’è un’altra esigenza, cioè rispettare la compiutezza dell’opera di Dio. Vale a dire che l’opera della creazione è già compiuta in se stessa; se ci fosse bisogno della natura umana di Cristo per compiere la creazione, ciò vorrebbe dire che la creazione, così come è uscita dalle mani del Creatore, non è buona perchè le manca qualcosa di essenziale[9].
San Tommaso non esclude il motivo della
ricapitolazione in Cristo, che di fatto avviene ed è cosa stupenda, un regalo
meraviglioso di Dio; però proprio per sottolinearne la caratteristica di dono,
di regalo, come vi dissi, cioè di qualcosa di gratuito, San Tommaso dice che
non era necessario per il bene della natura che avvenisse l’Incarnazione, ma
per il bene del peccatore, sì; il peccatore aveva bisogno di Cristo Redentore[10], benchè non di stretta necessità,
perché Iddio effettivamente avrebbe potuto anche operare una redenzione
minore. Ma ha preferito una Redenzione
piena.
Adesso vediamo in quanti modi il Cristo si dice Salvatore. Innanzitutto lo si dice a modo di merito, perchè il Cristo ha meritato la salvezza per tutti gli uomini e per ogni singolo uomo. Ora, nel merito ci sono tre realtà. Prima, il merito comporta sempre in un rapporto tra il merito stesso e il premio, cioè il merito si dice rispetto a un premio: si dice infatti che uno si merita un premio. Allora, il merito è un atto umano che merita qualche premio; perciò ci dev’essere una certa equivalenza tra l’agire dell’uomo, il merito, e il premio che Dio gli dà.
Chi stabilisce questa, come dire, corrispondenza tra l’atto umano e il premio divino? Ebbene, è Dio stesso. E’, questo, il danaro pattuito. Vi ricordate nel Vangelo, i vignaioli ingaggiati ad ogni ora della giornata? Tutti ricevono lo stesso denaro che poi rappresenta la stessa visione beatifica uguale per tutti. Ebbene, vedete che in questo pattuire la ricompensa c’è un’ordinatio Dei, come dice San Tommaso, cioè una certa disposizione di Dio, che connette un atto umano con il premio.
Ecco, però, che questo atto umano non sarebbe per nulla proporzionato al premio soprannaturale, se non avesse in sè qualcosa di soprannaturale a sua volta. Quindi l’atto umano dev’essere permeato dalla carità soprannaturale: solo ciò che facciamo in stato di grazia e di carità lo facciamo meritando; altrimenti possiamo fare del bene, umanamente possiamo essere onesti, ma non vale davanti a Dio.
Terza condizione, questo atto deve essere davvero umano, cioè libero. Non so, tanto per spiegarvelo in breve, è evidente che uno non dà la ricompensa a un animale o a una macchina. Facciamo l’esempio di un agricoltore che lavora con il trattore: egli non pensa a pagare il trattore per la prestazione. Perchè? Perchè il trattore ovviamente non è capace di emettere degli atti che gli appartengono. Mentre il salariato, cioè l’uomo ingaggiato per ricevere un salario, ha diritto al salario. Perchè? Perchè gli atti che fa sono atti suoi, cioè lui ha un diritto di proprietà sui suoi atti. Così, vedete, è necessario che i nostri atti siano veramente nostri, cioè che siano liberi, per meritare.
Quindi occorrono tre condizioni: prima, la libertà, cioè che siano atti liberi, non subiti supinamente; seconda, che siano permeati dalla carità soprannaturale; e terza, che ci sia quest’ordine tra merito e premio.
Ora, in Cristo, quest’ordine di equivalenza tra merito e premio è perfetto, assoluto, e solo in Cristo perchè noi tutti siamo deficienti nel merito; la nostra opera è sempre un che di finito, anche se innalzato dalla grazia. Quindi il Signore ci usa sempre misericordia quando dice: figliolo mio, per queste tue povere opere ti darò poi il premio della vita eterna. In Cristo, no. Infatti soltanto Gesù poteva presentarsi al Padre e dire: Padre, io ho diritto di essere il salvatore di tutto il genere umano[11] che io ho operato con la mia croce.
Perché? Ebbene, perchè tra il Padre e il Figlio, appunto, c’è perfetta uguaglianza di dignità. Perchè noi tutti siamo ovviamente in qualche modo minori rispetto a Dio, mentre tra il Padre e il Figlio, quanto alla Persona, c’è uguaglianza di dignità, quindi giustizia non più distributiva, ma giustizia commutativa. Posso spiegare questa cosa così: la giustizia distributiva comporta una certa uguaglianza tra disuguali: lo Stato che distribuisce e si spera equamente il bene comune, agisce da maggiore rispetto ai cittadini singoli che sono minori rispetto allo Stato. Quindi, non c’è una uguaglianza tra due persone, diciamo così, di pari dignità: la persona giuridica dello Stato è ovviamente superiore a quello del singolo cittadino.
Invece, considerando due persone di pari dignità, si ha la giustizia commutativa, ossia ciò che uno deve dare è tanto quanto l’altro deve ricevere. In questo modo, considerando l’opera salvifica di Cristo, il Figlio dona al Padre tanto quanto il Padre ha diritto di ricevere, ossia un adeguato compenso per il peccato[12].
Padre Tomas Tyn, OP
Trascrizione da registrazione di Sr. M. Colombo, OP, e Sr. M. Nicoletti, OP – Bologna, 2007
Testo rivisto con note da Padre Giovanni Cavalcoli, OP – Bologna, 2008

Servo di Dio Padre Tomas Tyn, OP
[1] Nota del Redattore: questa frase delicata era nel testo originale piuttosto sconnessa. Si è cercato di accomodarla sperando di non aver falsato il senso voluto dall’Autore.
[2] Nota del Redattore: abbiamo penato di inserire già qui: “misericordia e giustizia”, che vengono citate più sotto.
[3] Nota del Redattore: qui probabilmente Padre Tomas intendeva dire: l’espiazione del giusto.
[4] Nota del Redattore: è l’atteggiamento del padre della famosa parabola del figliol prodigo: Dio, in alcune circostanze della nostra vita, può comportarsi così; ma considerando il piano della salvezza nel suo insieme e nella sua legge generale, Dio vuole anche ricevere un adeguato compenso per l’offesa inflittagli dal peccato; e proprio per avere questo adeguato compenso, manda il suo Figlio a sacrificarsi per noi, e ci invita ad unirci alla croce del figlio.
[5] Nota del Redattore: da qui noi vediamo come il fatuo ed imbelle perdonismo buonista produca quella sciocca, sboccata ed irresponsabile allegria a tempo pieno, così di moda oggi nelle comunità cattoliche giovanili, comprese quelle religiose, che richiama più all’atteggiamento del ricco epulone del racconto evangelico, che alla gioia sobria e dignitosa che nasce dall’unione con Cristo crocifisso e risorto. “Curate la vostra salvezza con timore e tremore”, dice l’Apostolo. Certo il cristiano è ben lungi dall’essere un musone, ma dall’esser tale a concepire la vita come un perenne carnevale, ci corre molto, e ci si può e si deve fermare prima.
[6] Nota del Redattore. oggi si sente forse una lamentela un po’ diversa, anch’essa frutto della mancata fiducia nella sua misericordia: “mi è capitato un guaio troppo grande: Dio non mi può consolare”.
[7] Nota del redattore: intende dire: i difetti dell’uomo, ossia, qui, i peccati.
[8] Nota del Redattore: la teoria dell’Incarnazione ricapitolatrice o glorificatrice non coarta la libertà divina, perché si suppone che Dio la voglia liberamente.
[9] Nota del Redattore: l’Incarnazione non compie il creato, ma si aggiunge al creato già compiuto come una perfezione superiore, che lo avvicina a Dio in modo sommo ed insuperabile.
[10] Nota del Redattore: è bene maggiore per la creatura contemplare la gloria di Cristo che essere salvata dal peccato; quindi il motivo ricapitolatore o glorificatore dell’Incarnazione è superiore a quello redentivo. Certo, se Dio avesse voluto, avrebbe potuto non incarnarsi, e quindi redimerci e non glorificare Cristo; ma una volta che ha deciso di fare l’una e l’altra cosa, non si può più non ammettere che la finalità glorificatrice è superiore a quella redentrice, sia in se stessa che quoad nos.
[11] Nota del redattore: ciò sembra insinuare la salvezza anche degli embrioni. E’ la tesi di suor Matilde Nicoletti.
[12] Nota del redattore: il periodo in corsivo è ipotetico ed è costruito in base a quanto Padre Tomas ha già detto. Infatti il testo si interrompe dopo la parola “invece”.
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