Come può costui darci la sua carne da mangiare?

 

Come può costui darci la sua carne da mangiare?

(Gv 6,52)

Problemi del dialogo ecumenico

Il dialogo ecumenico con i luterani si è fermato attorno a tre punti essenziali di quanto Cristo ha voluto per la nostra salvezza: l’eucaristia, la Messa, il sacerdozio.  È presente il pastore, il maestro, il profeta. Manca il sacerdozio come potere di offrire il sacrificio della salvezza e nutrire la comunità cristiana col cibo eucaristico.

Iniziamo con la questione dell’eucaristia. Essa prevede, come si sa, la consumazione di un cibo che rappresenta Cristo presente nella comunità radunata nel suo nome. Ma come è da intendere questo mangiare e come è da intendere la presenza di Cristo? Nella comunione eucaristica il mangiare fisico si associa ad un nutrirsi spirituale ed è la condizione di un nutrirsi spiritualmente.

Mangiando un qualcosa di materiale, assumiamo un beneficio spirituale. Non fa nessun problema il sapere che la vita fisica è mantenuta in essere dal nutrimento fisico. Quello che ci domandiamo è come può un nutrirsi fisico causare nel nostro spirito una vita soprannaturale e divina?

Comprendiamo che il nostro spirito si arricchisca nella virtù e nella sapienza nutrendosi di concetti, pensieri, intenzioni, propositi e cose spirituali, come l’apprendimento della verità, il gusto della bellezza, la considerazione di esempi di virtù, l’assimilare l’insegnamento di un maestro, l’imparare una lezione, lo studio della filosofia.

Ma come può il mangiare la carne di un uomo assicurarci la vita eterna? Tutt’al più alimenterà la nostra vita fisica. Ma poi questa prospettiva ci appare orribile e gravemente peccaminosa.

Come è possibile che mangiando l’ostia noi mangiamo la carne di Cristo? Assumiamo la materia del suo corpo? O non piuttosto semplicemente assumiamo una porzione di pane, che poi viene normalmente digerito come qualsiasi altro cibo? Gli accidenti del pane agiscono e patiscono secondo le normali leggi del metabolismo organico, sicchè la materia dell’ostia assume la forma  della materia vivente del nostro corpo, come qualunque cibo che viene metabolizzato nel normale processo dell’alimentazione. Tuttavia la fede ci dice che la sostanza dell’ostia, che è la sostanza del corpo stesso di Cristo, alimenta invece l’anima e la fa crescere nella grazia.

Perché Gesù, presentando ai discepoli un pane spezzato (almeno ciò che ai sensi appariva pane), ha detto loro «prendete e mangiate: questo è il mio corpo», come se ciò che appariva ai sensi come pane non fosse in realtà pane, ma fosse quella sua carne, che in precedenza aveva detto dover essere mangiata per avere la vita eterna? Gli apostoli hanno veramente mangiato la carne del Signore? Certamente. Ma in che modo?

I Padri del Concilio di Trento hanno risposto: spiritualiter, sacramentaliter (Denz.1648) e realiter (Denz.1658). Spiritualiter vuol dire che è stato un mangiare spirituale, un alimentarsi spirituale; sacramenaliter vuol dire misterioso o mistico, ossia razionalmente incomprensibile e verbalmente inesprimibile; realiter vuol dire fisicamente o materialmente, perché la carne di Cristo «è vero cibo» (Gv 6,55) dell’anima e del corpo. Alcuni Santi per un certo tempo si sono nutriti della sola Eucaristia.

Altro problema: come può il sacerdote nella Messa con le parole della consacrazione rifare o fare ciò stesso che ha fatto Cristo nell’ultima Cena? Come possono quelle ostie preparate dalle suore o dai carcerati diventare il corpo di Cristo, sicchè noi nella comunione non mangiamo del pane, se non in apparenza, ma in realtà mangiamo il corpo di Cristo?

Il Concilio di Trento dice che nella comunione noi mangiamo, insieme con gli accidenti del pane, la sostanza del corpo di Cristo e, per concomitanza, la sostanza del sangue accogliendo nella nostra anima la sua anima e la sua divinità (Denz.1639), sicchè Cristo in Persona diventa interiormente presente in noi.

Ma quando il Concilio parla della distinzione fra la sostanza e le specie sensibili del pane (Denz.1636, 1642), che cosa intende dire? Come fa a fare questa distinzione? La sostanza del pane è il pane? O può esistere la sostanza del pane senza il pane? Quando noi diciamo «il pane» noi intendiamo la sostanza con i suoi accidenti.

Non riusciamo ad immaginare la sostanza senza gli accidenti e gli accidenti senza la sostanza, tanto che gli empiristi inglesi da Ockham fino a Bertrand Russell e i buddisti dicono che la sostanza non è altro che la collezione unificata e significata sotto uno stesso nome di un insieme coerente di accidenti, ovverosia dati sensibili, che non hanno bisogno di un sostegno o sostrato misterioso o invisibile – la cosiddetta «sostanza» - che li sostenga o li supporti; stanno in piedi da soli!

Se ci sono quei dati, c’è la sostanza; ma se non ci sono, è assurdo ipotizzare la sostanza da sola senza di essi. Come facciamo a sapere che dietro o sotto gli accidenti c’è la sostanza, se essa è per definizione nascosta? Pare che gli empiristi abbiano ragione. Certo, ammettono anche loro che il gusto del pane non è il pane, perché anche il colore del pane è nel pane, eppure è diverso dal gusto. Però, quando sentiamo qualcosa che ha il gusto del pane, diciamo: questo è pane!

Tuttavia bisogna dire che gli empiristi sono dei sensisti, che non sanno che cosa è l’intelletto e di che cosa esso è capace. Usano l’intelletto per negare le sue proprie funzioni in quanto distinte da quelle del senso. Infatti il senso coglie gli accidenti, ma non è capace di intendere la sostanza nella sua intellegibilità come ente sussistete da sé, materiale o spirituale che sia. Ora però siccome l’intelletto tutto quello che concepisce lo concepisce a modo di sostanza, tutto quello che riescono a concludere è di ipostatizzare i dati del senso, cadendo nel materialismo.

In realtà persino il cane riconosce il suo padrone; persino gli uccelli vedono il contadino e scappano. Il che vuol dire che anche l’animale, pur non essendo dotato di intelletto, sa in qualche modo riconoscere la sostanza o la persona, anche se è vero che è facile ingannarli: basta lo spaventapasseri per tener lontano gli uccelli.

Ora è vero che nessuno mai avrebbe pensato che fosse possibile l’esistenza di una sostanza senza i suoi accidenti o di accidenti senza la loro sostanza, se non vi   fossimo stati obbligati, in nome della fede, dal mistero dell’eucaristia, che si trasformerebbe in un’assurdità se non ammettessimo, col Concilio di Trento, che non nel pane, ma sotto le specie del pane nell’eucaristia è contenuto Cristo stesso: corpo, sangue, anima e divinità.

«Sotto le specie del pane» non vuol dire che la sostanza sia nascosta come il corpo è nascosto sotto l’abito che viene indossato, per cui basta togliere l’abito che si vede il corpo nudo. Anche se San Giovanni della Croce parla a tal riguardo di «nuda sostanza», è chiaro che si tratta di una metafora. È chiaro che eliminare gli accidenti vuol dire distruggere la sostanza. Un pane marcito non è più pane. Ma nell’eucaristia non c’è questione di corruzione degli accidenti. Se le specie si corrompono, non vuol dire che solo adesso non c’è più la sostanza del pane, ma che adesso non c’è più la presenza del corpo di Cristo. E per questo le ostie corrotte non si conservano più nel tabernacolo, ma vengono eliminate.

L’ostia consacrata non è quindi semplice pane che significa il corpo di Cristo, come credeva Calvino; non è pane nel quale è presente Cristo, come credeva Lutero, ma è veramente il corpo di Cristo sotto le specie sensibili del pane, come insegna il Concilio di Trento:

 

"sub specie illarum sensibilium" (=species sensibilium panis) "continetur" (Denz.1636); Cristo che "in sanctissimo sacramento eucharistiae continetur" (Denz. 1651). Dice inoltre che "in divino sacrificio, quod in Missa peragitur, idem Christus continetur et incruente peragitur" (Denz.1743). 

Dire, come dicono alcuni cattolici, che il Corpo è nel pane è l'eresia di Lutero dell'"impanazione", per la quale il pane resta pane, solo che Cristo è nel pane o della "consustanziazione", per la quale la sostanza del pane non si converte nella sostanza del corpo, ma le due sostanze restano assieme l'una accanto all'altra. La presenza reale della quale parla Lutero non ha quindi nulla di speciale per l’eucaristia, ma non è altro che la presenza di ubiquità di Dio in tutti i luoghi dell’universo o tutt’al più la presenza della sua grazia nell’anima del fedele.

Quando parliamo dell'eucaristia dobbiamo quindi evitare di parlare di "pane", ma dobbiamo parlare, come fa la Chiesa, di specie o accidenti del pane. Quello che sembra pane, pane non è, ma è il corpo del Signore. Non dobbiamo temere di dire che il pane si è convertito nel corpo del Signore, sicchè restano solo le apparenze sensibili del pane. Sentiamo il gusto del pane, ma ciò che mangiamo è la carne di Cristo.

Si può però parlare di pane eucaristico o pane consacrato in senso metaforico, sottintendendo sempre la transustanziazione, ed intendendo che si tratta di "pane" nel senso che è un cibo. Dice bene il famoso inno di San Tommaso: Panem de coelo praestitisti eis, omne delectamentum in se habentem.

Anche Gesù dice "il pane che io darò è la mia carne per la vita del mondo» (Gv 6,58). Se Cristo si esprime in questo modo, le sue parole non vanno intese nel senso che egli voglia identificare sic et simpliciter il pane dell’ultima Cena col suo corpo, ma intende dire che il cibo che darà è la sua carne; e del resto è metafisicamente impossibile che una sola sostanza sia simultaneamente due sostanze. Un pane è un pane e un corpo umano è un corpo umano.

Non ha seppur senso ipotizzare che un pane possa mescolarsi con un corpo umano come il caffè si mescola col latte per formare il caffelatte. E non ha neppur senso immaginare che il corpo di Cristo sia nel pane come l’uva passa nel panettone. Cristo non sublima o divinizza il pane, ma fa ben di più: lo fa diventare Lui stesso, senza che esso abbandoni le sue specie sensibili.

E' solo all'ultima Cena che appare chiaro che cosa qui Gesù intende dire. Così nell'ostia consacrata noi vediamo adesso Cristo sotto le apparenze del pane, nella speranza di vederlo un giorno svelatamente in cielo.

Non che il senso sia ingannato; il senso vede la bianchezza del pane e vede la verità; il fatto è che il senso non può vedere la sostanza, che è visibile solo dall'intelletto e questi per fede sa che la sostanza non è più quella del pane, ma quella del corpo di Cristo, presente, peraltro, non come sostanza esistente attualmente in cielo, ma a modo di sostanza (substantialiter).

Se il pane restasse pane, come nella Comunione eucaristica noi potremmo ricevere la vita eterna? Come può un cibo materiale donare la vita eterna? Se l’ostia ingerita dal fedele gli dona la vita, ciò è possibile perché sotto le apparenze del pane è Cristo stesso che agisce con la sua grazia. Se la carne di Cristo dona questa vita è perché è la carne di Dio. Il fedele mangia una carne ipostaticamente unita al Verbo e per questo, come dice Paolo, assimila la sua stessa esistenza a quella di Cristo. Come osserva acutamente Agostino, mentre il cibo terreno diventa la carne di colui che si ciba, il cibo eucaristico trasforma in se stesso colui che si ciba. Ed è logico che chi si accosta alla comunione sia in grazia, giacchè colui che si nutre dev’essere necessariamente un vivente; non si può dar da mangiare a un morto.

Noi pastori e predicatori dobbiamo dire queste cose ai fedeli, anche a costo di scandalizzare o di sembrare di dire cose assurde o di esser presi per matti o per lefevriani. Ma dobbiamo aver fiducia di poter esser creduti, così come da 2000 anni esistono i cattolici ed esisteranno fino alla fine del mondo, e dobbiamo temere più il giudizio di Dio che quello degli uomini o dei rahneriani o dei luterani.

La messa è banchetto e sacrificio

Gli equivoci del dialogo con i luterani appaiono chiarissimi anche per quanto riguarda il campo della liturgia. La riforma del rito della Messa avviata nel 1970 da San Paolo VI è stata in se stessa buona, opportuna ed utile anche ai fini di un confronto ecumenico con la Cena luterana. Ma anche qui a guastare le cose si sono intromessi i modernisti, i quali hanno cominciato a celebrare ed interpretare il novus ordo, in un modo falso, avvicinandolo troppo alla Cena luterana, con la comprensibile reazione sdegnata dei lefevriani, i quali già avevano interpretato, sia pur errando, il novus ordo come filoluterano.

La pastorale modernista della Messa, organizzata al suono delle trombe da 60 anni, dandoci ad intendere che era l'applicazione della riforma conciliare, ha completamente fallito. Nessuno oggi fa più l'adorazione eucaristica, molti diventano protestanti conservando il nome di cattolici e i fedeli alla Messa sono in continua diminuzione. Alcuni, come Andrea Grillo, credono che fra impanazione e transustanziazione si può scegliere come si preferisce. Quei pochi che restano prendono la Messa come fosse un banchetto, un'assemblea sindacale, un incontro fra amici, una festa da ballo, una manifestazione di esaltati o uno spettacolo televisivo, peraltro non paragonabile alle rappresentazioni della Scala di Milano o a quelli di Costanzo. La comunione è assimilata all’assunzione di una compressa contro il mal di denti o l’obbligatoria assunzione del pasto quando si partecipa ad un banchetto. I lefevriani attirano gli esteti, gli esoteristi e i nostalgici.

Molti oggi, influenzati dal protestantesimo liberale, non ammettono più che Cristo in obbedienza alla volontà del Padre, abbia compiuto un sacrificio espiatorio e soddisfattorio e, non avendo l’audacia di colpire apertamente il dogma della redenzione del Concilio di Trento, se la prendono col povero Sant’Anselmo, come se la dottrina della redenzione fosse un’invenzione della sua mentalità feudale del Signore che vuole e deve salvaguardare il suo onore, aver soddisfazione per l’offesa ricevuta o del Padre adirato e taccagno che vuole che gli sia pagato il debito, quando in realtà la dottrina tridentina non è che una ripresa di quella anselmiana, anche se liberata dal suo razionalismo.

Coloro che invece con Lutero riconoscono il sacrificio redentore di Cristo e non riducono Cristo al semplice profeta martirizzato e riconoscono giustamente che il sacrificio di Cristo come sacrificio divino, è uno solo e sufficientissimo per la redenzione di tutta l'umanità, vedono erroneamente la Messa come un sacrificio soggettivo compiuto dal celebrante che si aggiunge a quello di Cristo quasi a completarlo. Lutero aveva ragione a respingere con sdegno questa idea errata. Il suo grave sbaglio è stato che credeva che la Messa sia questo.

Cristo, secondo lui, all'ultima Cena, non ha offerto nessun sacrificio, ma ha voluto semplicemente rinnovare l'Alleanza facendo l'ultimo pasto pasquale con i suoi. E noi non facciamo altro che commemorare questa commovente ultima Cena d'addio.

Invece no. Occorre condurre i fratelli luterani alla consapevolezza di fede che la Messa è sì memoria dell'ultima Cena, ma è essenzialmente e fondamentalmente, per istituzione di Cristo, come dice il Tridentino, "sacrificium, quo cruentum illud semel in cruce peragendum repraesentatur eiusque memoria in finem usque saeculi permaneret" (Denz.1740).

Capisco che l'espressione tradizionale "rinnovazione" non è delle più felici. Essa oggi è stata abbandonata per favorire l’avvicinamento ai protestanti. Infatti è vero che il sacrificio della croce non è come rinnovare la patente d'auto o un qualcosa che abbia bisogno di essere svecchiato dal sacerdote che dice Messa, quasi che il sacerdote vi aggiunga qualcosa, lo aggiorni o lo migliori, perchè Cristo è sempre nuovo, è sempre vivo e continua sempre nella Messa ad offrirsi al Padre e ad intercedere per noi come sommo sacerdote. Per cui ciò che facciamo noi sacerdoti (hoc facite in mei commemrationem), lo facciamo in persona Christi.

Il Concilio parla piuttosto di repraesentatio dell'unico sacrificio di Cristo, il che vuol dire renderlo presente ed operante fra noi, nello spazio e nel tempo, in tutte le Messe del mondo con la sua efficacia salvifica. E ciò avviene per il potere che Cristo ha dato a noi sacerdoti. L’espressione del Concilio era più ecumenica di quella di rinnovazione, perché in essa appare evidente l’unicità del Sacrificio di Cristo, che vien semplicemente reso presente sulla terra nella storia del mondo.

In questo senso si può e si deve dire che la Messa è un sacrificio (sacrum facio) e che noi sacerdoti offriamo un sacrificio, ossia offriamo al Padre Cristo eucaristico vittima (hostia, korban) del sacrificio che noi sacerdoti celebriamo pronunciando le parole della consacrazione, che rendono sacramentalmente e realmente presente Cristo sull'altare sotto le specie eucaristiche, cosicchè noi offriamo sotto queste specie Cristo stesso al Padre in forza del fatto che Cristo in cielo continua ad offrire se stesso al Padre ed intercede per noi, sicchè noi sacerdoti ripresentiamo in modo incruento a noi stessi e al popolo l'unica offerta che Cristo ha fatto di se stesso una volta per tutte al Padre per noi sulla croce 2000 anni fa e noi stessi insieme col popolo offriamo per la nostra salvezza Cristo sacramentato al Padre.

Si tratta dunque dell'unico e medesimo sacrificio di Cristo; cambia solo il modo della sua presenza: presente in modo cruento agli astanti 2000 anni fa; presente a tutti i fedeli fino alla fine del mondo in modo incruento in ogni Messa che viene celebrata.

La sostanza del corpo di Cristo adesso in cielo ha i suoi accidenti, mentre qui in terra essa è presente senza gli accidenti in tutti gli altari del mondo fino alla fine dei secoli. Esiste quindi una sola sostanza con i suoi accidenti ed esistono molte presenze di questa stessa sostanza tra noi nella vita presente. Questa presenza come va concepita? Qui noi siamo obbligati ad arricchire il nostro concetto di presenza.

Secondo il nostro solito modo di dire, noi diciamo che una persona ci è presente o perché sta davanti a noi o perché ne abbiamo una rappresentazione mentale (il concetto) o perché la vediamo rappresentata in un’immagine. Ora Gesù nel suo corpo, sangue, anima e divinità nell’eucaristia ci è presente in nessuno di questi modi; non ci è presente personalmente in carne ed ossa così come è in cielo; non è che Cristo risorto scenda dal cielo per essere tra noi, perché un corpo occupa un solo luogo e non può essere simultaneamente in luoghi diversi, non si può moltiplicare. Non ci è presente mentalmente nel concetto che abbiamo di lui. Non ci è presente come ci è presente alla televisione il presidente Mattarella o la Meloni.

Come allora ci è presente? Si tratta di una presenza, effetto dell’onnipotenza divina, sconosciuta alla nostra ragione, prima che ne venissimo a conoscenza apprendendo il mistero dell’eucaristia. Si tratta di una presenza per la quale la cosa, in questo caso Cristo, è presente benché sia assente. Sembra una contraddizione, ma non è così. Come si risolve la contraddizione? Cristo ci è realmente e sostanzialmente presente sotto i veli eucaristici. Ma nel contempo ci è assente in quanto è in cielo, dicendo che qui in terra la sostanza è senza gli accidenti, che sono sostituiti da quelli del pane e del vino, mentre in cielo ha i suoi accidenti.

La Chiesa chiama reale questa presenza, per distinguerla da quella intenzionale e da quella figurativa di cui sopra. Ma si badi bene: reale ma senza gli accidenti. Per questo i teologi dicono presenza sostanziale, non in quanto sostanza con i suoi accidenti, ma a modo di sostanza.

Lutero ci teneva alla presenza reale di Cristo nell’eucaristia, ma, non accettando l’idea di una sostanza senza accidenti, era obbligato a concepire questa presenza come se nell’eucaristia ci fosse la compresenza del pane e del Corpo di Cristo come due sostanze con i loro accidenti e quindi non distingueva il corpo di Cristo in cielo da quello presente nell’Eucaristia.

Ne veniva la conseguenza che noi nella comunione non mangiamo la carne di Cristo, ma del pane nel quale c’è Cristo. Ma a questo punto, qualunque nostro pasto assunto in Cristo diventa un pasto eucaristico e non si vede più che necessità ci sia di celebrare un rito speciale, dal momento che ogni pasto che il cristiano consuma, lo consuma sempre alla presenza del Signore, come ci invita a fare San Paolo (I Cor 10,31).

Ma Paolo distingue molto bene questo mangiare comune dal mangiare il corpo del Signore (I Cor 11, 26-29). Per questo, bisogna persuadere i nostri fratelli luterani che il pasto eucaristico non è un semplice mangiare in compagnia di Cristo, ma è un vero e proprio mangiare la carne di Cristo e questa cosa non è possibile se non accettando il dogma della transustanziazione.

Quindi, sotto due modalità di presenza, con accidenti e senza accidenti, del sacrificio della croce si può parlare di due distinti sacrifici: quello celeste ed unico di Cristo risorto alla destra del Padre e quello di noi sacerdoti, molteplice su questa terra, nello spazio e nel tempo, effetto, espansione e ripresentazione di quello, che celebriamo noi sacerdoti nella vita presente, giacchè c'è da tener presente che se noi agiamo in persona Christi, tuttavia non siamo Cristo.

Noi prestiamo a Lui la nostra voce, le nostre mani, i nostri gesti, la nostra mente, il nostro cuore; ma è chiaro che il sommo ed unico Sacerdote e Celebrante è Lui. Come mai Lutero non ha capito questo, fantasticando di chissà quale presunzione di noi sacerdoti di fare una cosa inventata da noi per completare e perfezionare quello che ha fatto Cristo?

La verità invece è che, accanto all’unico sacrificio che Cristo celebra di Se stesso in cielo, come estensione e ripresentazione da Lui voluta in terra del suo sacrificio, esiste una molteplicità di sacrifici, che sono le Messe celebrate da noi sacerdoti nel mondo. Noi sacerdoti, dal canto nostro, non facciamo niente che non sia quello che ha fatto Cristo e che ci ha ordinato di fare dandoci il potere di farlo, per cui semplicemente partecipiamo del suo sacerdozio, ma è chiaro che è Lui che come sommo Sacerdote della Nuova Alleanza, sostanzialmente celebra la Messa ed ogni Messa, come è detto nella Mediator Dei di Pio XII. Noi non siamo che suoi umili e poveri ma reali strumenti della sua universale azione sacerdotale.

Possiamo inoltre far presente che l'idea, avanzata oggi da alcuni liturgisti, che con la Messa noi siamo presenti al sacrificio della Croce è senz'altro bella e plausibile, purchè però essa sottintenda che questa nostra presenza è resa possibile dal fatto che Cristo stesso crocifisso e risorto è realmente presente a noi sotto le specie eucaristiche.

Il sacerdote partecipa del sacerdozio di Cristo. Per questo esistono gradi del sacerdozio, dal diaconato all’episcopato. Per questo esiste un sacerdozio comune dei fedeli soggetto al sacerdozio ministeriale della gerarchia ecclesiastica fino al suo vertice, il Romano Pontefice. A Lutero sono sfuggiti tutti questi valori genuinamente evangelici e neotestamentari, perché ha ignorato il concetto di partecipazione, che invece è una categoria biblica fondamentale, come ha dimostrato il Padre Cornelio Fabro in una sua opera classica e magistrale[1].

Lutero ha limitato e appiattito la concezione della comunità cristiana alla sola dottrina che tutti sono fratelli ed uno solo è il Padre e Maestro, il Cristo. Ma Gesù non si è fermato a questa caratterizzazione della comunità. Egli ha stabilito gli apostoli, col compito di governare la comunità sotto la guida di Pietro. Lutero, trascurando questo aspetto essenziale, ha una concezione monca ed insufficiente della comunità cristiana; per cui occorre che noi cattolici rendiamo consapevoli i nostri fratelli luterani di questa lacuna.

Nella visione luterana del sacerdozio comune dei fedeli, il ministro del culto non è un sacerdote investito di un potere che il comune fedele non abbia, almeno in radice. Per questo Lutero, parlando della guida della comunità, abbandona il termine «sacerdote», che fa pensare a un potere aggiunto a quello del semplice battezzato, e preferisce notoriamente quello di «ministro» o «pastore». Da qui la sua idea che il ministro del culto non è sacramentalmente ordinato dal detentore di un grado superiore del sacerdozio, come il vescovo, ma è il semplice presidente dell’assemblea, scelto dall’assemblea, la quale è come tale il soggetto del culto e dell’azione liturgica. 

Cristo ha istituito il sacerdozio all’Ultima Cena

Del tutto a buon diritto il Concilio di Trento ha detto che Cristo ha istituito il sacerdozio all'ultima Cena, giacchè l'essenza del sacerdozio consiste effettivamente nel poter fare quello che Cristo ha fatto ed ha ordinato di fare agli apostoli in sua memoria.

Con la celebrazione dell’eucaristia il sacerdote edifica la comunità cristiana, per la quale e con la quale offre al Padre Cristo immolato in sacrificio di espiazione, simboleggiato dall’agnello pasquale immolato per i peccati del popolo, essendo stata l’Ultima Cena la commemorazione della Pasqua prescritta da Mosè per ringraziare Dio per la liberazione degli Ebrei dalla schiavitù egiziana e formare il popolo di Dio in pellegrinaggio verso la terra promessa.

Similmente il sacerdote, ministro di Cristo, nuovo Mosè, e pastore della comunità cristiana, il nuovo popolo di Dio che è la Chiesa, corpo mistico di Cristo, imbandisce il nuovo banchetto pasquale, distribuendo in cibo la carne della Vittima divina, Cristo agnello immolato, guidando il gregge di Cristo verso la patria celeste. Dunque, niente comunità cristiana senza il sacerdote che offrendo Cristo al Padre, la edifica col cibo eucaristico, la istruisce con la Parola di Dio e la purifica col sacramento della penitenza. 

Il confessare i fedeli, ministero proprio del sacerdote, è un derivato dal poter celebrare la Messa, perchè la Messa serve per la remissione dei peccati e chi fa la comunione, la fa perchè è già stato perdonato da quella grazia che Cristo ci ha ottenuto a noi sacerdoti col sacrificio che noi celebriamo nella Messa e il cui potere di perdono si effettua per il nostro ministero di confessori. Il rifiuto luterano del ministero sacerdotale della confessione è conseguenza logica del suo rifiuto di ammettere la facoltà del sacerdote di celebrare la Messa come sacrificio.

Stante invece quello che ho detto circa il potere di consacrare il corpo e il sangue del Signore, come potere proprio del sacerdote, c’è da notare che chi si facesse sacerdote senza credere a questo potere, non avrebbe la vera vocazione, si farebbe sacerdote senza sapere quello che fa, fosse anche un vescovo (vedi gli anglicani), e la sua ordinazione sarebbe invalida. Immaginiamo il danno che farebbe un sacerdote di questo tipo. Ma dobbiamo pensare anche quali immensi benefìci il sacerdote santo assicura al bene della Chiesa e alla salvezza del mondo, come dimostra la storia bimillenaria del sacerdozio cattolico.

Stanti così le cose, ci rendiamo conto di ciò che manca alle comunità dei nostri fratelli luterani per vivere in pienezza quella comunione fraterna e con Cristo, che Cristo ha voluto per la nostra salvezza, quel Cristo del quale esse pure vogliono essere discepole e che vogliono come loro pastore.

La Cena luterana, memoriale dell’Ultima Cena, si edifica certamente anch’essa attorno alla presenza del Signore crocifisso e risorto, un Gesù che certamente è Figlio di Dio, maestro e pastore, ma non è Agnello immolato per la nostra salvezza e non è pastore divino che procura la vita eterna. C’è sì Cristo, ma non c’è tutto Cristo, Attendiamo da cinque secoli che questi fratelli accettino Cristo nella sua pienezza.

Stando così le cose, noi cattolici non possiamo celebrare assieme con i fratelli luterani la memoria liturgica dell’Ultima Cena, né possiamo ammetterli alla comunione eucaristica, finché essi non riconosceranno la vera natura del sacerdozio, il suo potere di operare la transustanziazione eucaristica e non riconosceranno la Messa come sacrificio propiziatorio, come lo definisce il Concilio di Trento (Denz.1743) celebrato dal sacerdote.

Se poi ci sono dei cattolici che sui punti suddetti la pensano come i luterani, dovrebbero sapere che le loro Messe sono nulle e semmai delle pie riunioni di devoti di Cristo, ma niente di più. Questo è un falso ecumenismo, che invece di convertire i luterani al cattolicesimo, trasforma i cattolici in luterani o quanto meno in modernisti.

Occorre dunque che su questi tre punti che ho segnalato: eucaristia, Messa e sacerdozio il dialogo con i fratelli luterani sappia trovare le vie e i modi per mostrar loro che se vogliono essere pienamente cristiani, obbedienti in tutto a ciò che Cristo ha voluto ed istituito per la sua Chiesa e per la salvezza del mondo, siano disponibili ad avere per queste cose un animo aperto ed accogliente.

P. Giovanni Cavalcoli

Fontanellato, 7 aprile 2023

 

Gesù, presentando ai discepoli un pane spezzato (almeno ciò che ai sensi appariva pane), ha detto loro «prendete e mangiate: questo è il mio corpo», come se ciò che appariva ai sensi come pane non fosse in realtà pane, ma fosse quella sua carne, che in precedenza aveva detto dover essere mangiata per avere la vita eterna? Gli apostoli hanno veramente mangiato la carne del Signore? Certamente. Ma in che modo?

I Padri del Concilio di Trento hanno risposto: spiritualiter, sacramentaliter (Denz.1648) e realiter (Denz.1658). Spiritualiter vuol dire che è stato un mangiare spirituale, un alimentarsi spirituale; sacramenaliter vuol dire misterioso o mistico, ossia razionalmente incomprensibile e verbalmente inesprimibile; realiter vuol dire fisicamente o materialmente, perché la carne di Cristo «è vero cibo» (Gv 6,55) dell’anima e del corpo.

Immagine da Internet: Ultima Cena, Philippe de Champaigne



[1] La nozione metafisica di partecipazione secondo S.Tommaso d’Aquino, SEI, Torino 1950, soprattutto la parte III, sez.II Le partecipazioni soprannaturali.

2 commenti:

  1. Caro Padre, da quanto ho potuto vedere direttamente, non penso che i fratelli protestanti si possano lasciar persuadere da noi cattolici. Anzi, succede il contrario: essi si sentono confermati nei loro errori e vengono addirittura presi come esempio da presbiteri e teologi cattolici che fanno di tutto per farseli amici, invitandoli a conferenze, mettendoli in cattedra in incontri parrocchiali, scrivendo libri con loro, appoggiando le loro idee errate, condividendo a quattrocchi che nell’eucarestia vi sia consustanziazione e non transustanziazione e via di questo passo. Sembra che valga di più il sentimento, la fratellanza tra gli uomini, che non la logica e la dottrina. L’ultimo esempio ci viene dalla Chiesa tedesca che ha deciso di benedire le coppie omosessuali: se c’è amore, lì c’è anche Dio, dicono. A questo punto, per estensione forzata, basta credere di amare qualcuno o qualcosa, gli animali, la natura, la ricchezza, la fama, il potere, il lavoro, la patria, la giustizia e tutto diventa lecito perché non c’è più ordine. Mi dica se sbaglio.

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    1. Caro Alessandro,
      per quanto l’ecumenismo sia spesso realizzato male, questo non è un buon motivo per avere questo suo scetticismo circa la possibilità che i protestanti si convertano al cattolicesimo.
      L’atmosfera attuale, se viene vissuta secondo quell’ecumenismo che viene insegnato dal Concilio, produce buoni frutti.
      Lei ha fatto un elenco di infrazioni alle direttive conciliari, ma, grazie a Dio, da sessant’anni esiste un ecumenismo sano, che fa capo soprattutto all’esempio dato dai Sommi Pontefici, da San Giovanni XXIII a Papa Francesco.
      Semmai la cosa da mettere in luce è la necessità o l’opportunità di proporre ai fratelli separati quelle mete di avanzamento verso la pienezza della comunione con la Chiesa cattolica, mete che vanno proposte con carità, sulla base di una buona preparazione teologica, e con la fiducia che possano essere desiderate e quindi perseguite, mete che devono essere proporzionate a quelle che attualmente i protestanti possono raggiungere e che quindi non superino le loro attuali forze e capacità di comprensione.
      Inoltre dobbiamo fare molta attenzione a non assumere un atteggiamento dogmatico e rigido, ma dobbiamo essere mossi da uno spirito di accoglienza e di comprensione, pronti ad accompagnarli e ad ascoltarli sia nelle loro difficoltà che nelle proposte positive.

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