La concezione idealistica della filosofia - Quinta Parte (5/6)

 

La concezione idealistica della filosofia

Quinta Parte (5/6)

Husserl: nulla esiste fuori della coscienza[1]

Per Husserl la filosofia è la fenomenologia, che, a ben guardare, è una forma di idealismo: 

«Attraverso la fenomenologica messa fuori gioco del mondo obiettivo, questa sfera “immanente” dell’essere perde bensì il suo senso di uno strato reale di quella realtà uomo (oppure animale) che inerisce al mondo e che presuppone già il mondo. Perde il senso di vita coscienziale umana. … Ma non va semplicemente perduta: attraverso il mutato atteggiamento dell’epochè ottiene il senso di una sfera assoluta dell’essere»[2].

«La consapevole attuazione dell’epochè si rivelerà come quell’operazione metodica, assolutamente necessaria, che è capace di dischiuderci, con la regione assoluta dell’autonoma soggettività, quel terreno dell’essere con cui è in riferimento, insieme con la nuova esperienza e con la fenomenologia, ogni filosofia radicale, quel terreno che le conferisce il senso di una scienza assoluta»[3].

Husserl chiama «scienza naturale» il realismo, ossia l’ammissione indubitabile dell’esistenza di cose fuori di noi e della nostra coscienza, con la conseguenza che la filosofia viene intesa come conoscenza di queste cose e delle loro cause. Invece per Husserl non c’è niente fuori della nostra coscienza, per cui la filosofia si esaurisce nell’analisi di ciò che c’è nella nostra coscienza.

Egli non ripudia l’atteggiamento naturale, perché riconosce che è necessario per il vivere quotidiano, per la morale e per le scienze. Lo giudica però ingenuo e non critico, non radicale, non filosofico, ma superficiale e derivato. Per questo, per lui la filosofia radicale e rigorosa non consiste nel guardare fuori di noi, ma dentro, ossia nella nostra coscienza, che egli intende come cogito cartesiano. E quindi siamo daccapo con l’idealismo.

Così egli intende il realismo:

«Ogni scienza naturale è nei suoi punti di partenza ingenua. Per essa la natura che intende ricercare c’è semplicemente. È ovvio, le cose ci sono. Sono nello spazio infinito quanto in quiete, in moto, mutevoli e in quanto cose temporali nel tempo infinito. … Compito della scienza naturale è conoscere queste ovvie datità in modo oggettivamente valido e rigorosamente scientifico»[4].

La filosofia rigorosa, che va veramente alla radice dell’essere, per Husserl, è la fenomenologia, che così egli definisce:

«la pura fenomenologia in quanto scienza, nella misura in cui è pura e non fa alcun uso della posizione esistenziale della natura, può essere soltanto ricerca di essenza e non ricerca di esistenza»[5].  

Infatti l’esistere delle cose è esterno alla coscienza, mentre l’essenza può essere immanentizzata nella coscienza. Solo che ci possiamo domandare come fa l’essenza del reale esterno ad esser presente alla coscienza, se in precedenza l’intelletto mediante i sensi non contattato il reale esterno? Come facciamo ad avere in noi l’essenza della realtà, se non ce ne siamo fatti una rappresentazione nella coscienza? Che cosa è questa «essenza» che la coscienza coglie in se stessa? Essenza di che cosa? Da dove la tira fuori se non l’ha trovata nella realtà esterna? L’ha creata la coscienza?

Si nota inoltre in Husserl la volontà di ridurre la sapienza alla scienza, con un atteggiamento, quindi, di disprezzo per la vera filosofia, che è amore per la sapienza. Quindi dove va a finire la sua filosofia rigorosa? Dice egli infatti:

«La profondità riguarda la sapienza, mentre la distinzione e la chiarezza concettuale ineriscono alla teoria rigorosa. Convertire in forme razionali univoche i presentimenti di un senso profondo, questo è il processo essenziale della nuova costituzione delle scienze rigorose. … Oso sperare che, come le scienze nelle lotte del Rinascimento, così anche la filosofia in quelle attuali si solleverà dallo stadio della profondità a quello della chiarezza scientifica»[6].

La concezione idealistica della realtà appare evidente da queste domande che Husserl si pone. La risposta è chiara: le cose non hanno un senso in se stesse, ma è la coscienza che dà senso alle cose:

«Ciò che viene asserito, fondato, compreso con evidenza, in breve conosciuto, ciò che è essenzialmente conoscibile, non trae forse il suo senso dalla conoscenza, dalla sua essenza propria, che è in tutti i suoi gradi coscienza, “vivere” soggettivo? A qualunque cosa si “riferisca” in quanto “contenuto” questa conoscenza, e qualunque significato assuma qui la parola “contenuto”, non si compie questo riferire comunque nella coscienza stessa, e il contenuto non è dunque racchiuso in essa? Come può essere compreso ora però l’“essere-in-sé” del mondo, se esso non è e non può essere per noi altro che un senso che si forma, soggettivamente o intersoggettivamente, nel nostro operato conoscitivo, comprendendo naturalmente il carattere, pensabile solo in relazione ai sensi, di “essere vero”?» [7].

È evidente come qui Husserl confonda l’aspetto produttivo della formazione (species expressa) del conoscere con quello recettivo informatore (species impressa), e non comprenda come, se la cosa è in noi in quanto pensata, non per questo non resta fuori in quanto pensabile.

Heidegger: la precomprensione dell’essere

La filosofia di Heidegger non si può qualificare come idealismo nella sua denominazione linguistica, perché ad Heidegger la tematica dell’idea interessa scarsamente. E tuttavia anche in Heidegger c’è la sostanza dell’idealismo in quanto l’idealismo comporta l’esprimersi del trascendentale kantiano nel categoriale empirico.

Il trascendentale kantiano[8] è, come si sa, l’io penso cartesiano, mentre il categoriale è il residuo di realismo relativo alla cosa in sé. L’idealismo infatti nella sua storia da Cartesio a Severino, non ha mai avuto la sfrontatezza di ripudiare del tutto il realismo, sia perché gli fa comodo come struttura noetica del vivere quotidiano, dei rapporti sociali e della pratica della scienza e della tecnica e sia per motivi di convenienza e buona reputazione. Soltanto Fichte, come vedremo, mostra un’ostilità emotiva che fa scadere di molto il tono del suo procedere filosofico ad una forma psicologica di idiosincrasia.

Per Heidegger la categorizzazione della realtà empirica (la «cosa in sè») la  chiama «ontica» o «esistentiva», preceduta e condizionata da una precomprensione (vorverständnis) dell’essere o esperienza preconcettuale dell’essere, che secondo lui corrisponderebbe a quel sapere trascendentale che Kant teorizza in quella che egli chiama «rivoluzione copernicana»[9].

Heidegger interpreta in questo modo l’operazione kantiana[10]:

«Kant vuol dire che “non ogni conoscenza” è ontica e che là dove è data simile conoscenza, essa non è possibile se non per una conoscenza ontologica. La rivoluzione copernicana distrugge così poco l’”antico” concetto di verità inteso come adaequatio della conoscenza all’ente che, del tutto al contrario, lo presuppone e lo fonda per la prima volta: La conoscenza ontica non può uguagliarsi all’ente (agli “oggetti”), se questo ente non è già manifesto in precedenza come ente, vale a dire, se la costituzione del suo essere non è conosciuta. È a quest’ultima conoscenza che gli oggetti, vale dire la loro determinabilità ontica, devono conformarsi. La manifestazione dell’ente (verità ontica) dipende dallo svelamento della costituzione dell’essere dell’ente (verità ontologica); ma la conoscenza ontica potrà conformarsi “agli” oggetti, perché senza ls conoscenza ontologica essa non dispone neppure della possibilità di orientarsi».

Heidegger vuol dire che Kant mantiene il concetto tomista della verità gnoseologica come adaequatio ad rem, solo che inverte il rapporto stabilito da San Tommaso, il quale parla di adeguazione del soggetto (intellectus) all’oggetto (res).

Invece Kant parla di adeguazione dell’oggetto (fenomeno) al soggetto («io penso» e forme a priori dell’intelletto), quella che Heidegger chiama conoscenza previa trascendentale, vorverständnis. In tal modo la verità ontologica, verità dell’essere (precomprensione atematica) per Heidegger ha il primato sulla verità gnoseologica (concettuale)[11]. La seconda presuppone la prima e deriva da quella[12].

Invece per Tommaso[13] la verità risiede nell’intelletto prima che appartenere all’essere, perché essa presuppone l’atto dell’intelletto, mentre l’essere di per sé non dice vero (verum), ma solo essere. Questo è il puro realismo. Invece, ridurre l’essere al vero è la tipica operazione dell’idealismo, che ammette l’essere (oggetto) non in sé indipendente dal pensiero, ma solo in relazione all’intelletto (soggetto umano), l’essere in quanto pensato.

La novità dell’idealismo contemporaneo è che il suo riferimento non è più Hegel, per cui non è più storicista, ma è Parmenide, per cui è diventato eternalista. Certo anche gli esiti sociali di questo eternalismo monistico non sono incoraggianti, giacchè con l’esclusione della diversità e l’assolutizzazione dell’unità, non è difficile immaginare lo sbocco totalitario di una visione metafisica basata non sull’ente analogico, garanzia dell’unità nella pluralità, ma sull’ente come tutto o intero delle parti.                                                                                                                          

Rahner: la filosofia è l’esperienza dell’autocoscienza

Rahner ammette la filosofia come sapere concettuale, ma per lui questo modo concettuale del sapere è solo il derivato di un sapere più originario, immediato, preconcettuale e apriorico, che egli chiama «esperienza trascendentale»[14] avente per oggetto, l’essere, il sé e Dio. Siccome essa di per sè è priva di parola, egli ama identificarla con l’esperienza mistica[15].

Ci si può chiedere quale valore conoscitivo abbiano i concetti di fede in questa concezione della filosofia, la quale, presentandosi come sapere supremo, come «esperienza di Dio», sembra non dare ai concetti di fede quel primato sulla ragione filosofica che ad essi spetta, sicchè questa visione della filosofia ha tutta l’aria di essere una forma di gnosi, come del resto si presenta nell’idealismo il concetto di filosofia nei confronti della religione o della dogmatica cristiana. La concezione idealistica del filosofare appare evidente da questo brano di Rahner:

«Nel problema metafisico dell’essere s’indaga in primo luogo l’essere in genere. Ciò però significa che l’essenza dell’essere è conoscere ed essere conosciuto in una unità originaria, che vogliamo chiamare coscienza o trasparenza («soggettiività», «conoscenza») dell’essere di ogni ente»[16].

In base a questi presupposti Rahner definisce in tal modo la filosofia:

«L’esperienza atematica e costantemente operante - la conoscenza di Dio che sempre attuiamo proprio quando pensiamo a tutt’altro e ci occupiamo di tutt’altro che di Dio – è il fondamento permanente da cui emerge quella conoscenza tematica di Dio che noi attuiamo nell’attività esplicitamente filosofica»[17].

Il pensare in continuazione a Dio non è affatto oggetto permanente del nostro pensiero in esercizio continuato. Il pensare a Dio in continuazione è possibile, è virtù dei santi, ma ciò non avviene necessariamente in forza del semplice pensare, ma per un atto continuato del volere restando sempre la possibilità che la mente volga l’attenzione ad altro oggetto. L’ateo, se pensa, certamente pensa a qualcosa, ma non pensa certo in continuazione a Dio

Rahner confonde il pensare a Dio col pensare all’essere. Questo solo pensiero è quello che fa da sottofondo a tutti i nostri pensieri, perché si suppone che, se pensiamo, pensiamo a qualcosa. Ora Dio non corrisponde semplicemente al qualcosa. Dio è l’ente supremo. Solo Dio nel suo pensare ha sempre se stesso come oggetto del suo pensare. Rahner confonde il pensare umano col pensare divino.

La nostra attività concettualizzatrice non è preceduta da alcuna esperienza atematica di Dio, ma semplicemente dall’esperienza sensibile delle cose, dalla quale ricaviamo la conoscenza delle cose, interrogandoci sulla causa del loro essere, giungiamo a sapere che Dio esiste. Il Dio atematico sperimentato da Rahner è una pura immaginazione della mente di Rahner.

Severino: la filosofia annulla la fede[18]

Severino dichiara: «il tema centrale della mia filosofia è la verità definitiva, incontrovertibile». E si chiede: «E l’incontrovertibile in che consiste, finalmente?»[19]. Giunto all’essere di Parmenide credette di aver trovato questo incontrovertibile, ma assunse l’essere parmenideo in modo così dogmatico ed esclusivista, da precludersi la superiore certezza della fede cattolica, nella quale pure era stato educato.

Egli mostra la sua tendenza gnostica nella sua autobiografia[20]. Essa sorse nel suo animo già in gioventù, quando era ancora cattolico, ma già allora gli era venuta l’idea che il cattolicesimo non fosse la suprema rivelazione della verità religiosa e teologica, ma fosse un fenomeno storico-culturale tra altri, che andava giudicato o «pensato alla luce della verità razionale o filosofica. Era già un hegeliano senza saperlo. Dice:

«In relazione al cristianesimo, soprattutto pensavo; pensavo la grandezza di questo evento; l’esperienza cristiana non stava in cima, ma era un mezzo perchè quel pensiero si dispiegasse. E mi diventava sempre più chiaro che il cristianesimo era un grande evento, ma non l’unico e che sopra ogni grandezza stava la verità della grandezza, la verità che soltanto il pensiero filosofico avrebbe potuto mostrare».

Il cristianesimo non gli appare come la Parola di Dio incarnata all’origine e al vertice della storia, ma come un grande evento storico tra altri da vagliare alla luce della ragione.

In linea con l’impostazione gnostica dell’idealismo, per Severino la filosofia è il sapere supremo, superiore alla fede e quindi superiore al realismo. Infatti La fede suppone l’ammissione dell’essere extramentale. Dio è un essere extramentale. Ora la fede è adesione alla parola di Dio. Ma se l’essere è l’essere pensato, è chiaro che la fede è impossibile, dato che essa non solo suppone la realtà extramentale, ma addirittura il contatto con l’eccellenza suprema dell’essere extramentale, che è Dio. Ora per Severino Dio non esiste e dunque non c’è nessuna rivelazione divina alla quale la ragione debba credere. La ragione è intrascendibile. Dice Severino:

«L’esigenza di porre il punto di vista supremo dell’uomo in ciò che sta al di là di ogni fede, presupposto, opinione, senso comune, non è prerogativa della filosofia moderna ma è lo stesso atto di nascita della filosofia in quanto tale. … la nascita della filosofia è il commisurare ogni cosa al senso originario dell’incontrovertibile; tutte le cose vengono radunate innanzi ad esso, affinchè si decida che cosa meriti di essere posto come l’incontrovertibile: ciò che non lo merita è fede, ipotesi, presupposto, opinione, senso comune»[21].

Successivamente narra[22] come nello studiare Parmenide, giunse alla convinzione che l’essere come tale è eterno, per cui cominciò a ritenere che gli asserti di fede, per i quali invece non esiste solo l’eterno, ma anche il temporale, non solo il necessario ma anche il contingente, non solo l’essere, ma anche il divenire, non solo l’uno ma anche i molti mancano di incontrovertibilità. E piuttosto che rinunciare a Parmenide preferì negar fede a Cristo ed alla Chiesa e, diciamolo pure, alla sana ragione.

Severino giunse così alla convinzione che

 «il messaggio cristiano è completamente avvolto dalla persuasione che il mondo, in quanto creato, esce dal nulla e vi ritorna – e che le cose del mondo sono a loro volta questa oscillazione fra l’essere e il nulla -, dalla persuasione che è l’essenza autentica del nichilismo, giacchè pensare che gli essenti siano stati nulla e tornino ad esserlo significa affermare l’esistenza di un tempo in cui l’essere è nulla»[23].

Ora, bisogna dire che queste accuse sono chiaramente calunniose. Il cristianesimo dice che gli enti contingenti sono creati da Dio dal nulla, per cui passano dal non-essere all’essere, cioè prima non sono e poi sono. Da possibili diventano attuali. E non insegna affatto che finiscono nel nulla, ma che tutti risorgeranno alla fine dei tempi. Severino attribuisce al cristianesimo il nichilismo di Leopardi. Gli si può perdonare una simile ignoranza o confusione? 

Il cristiano, come qualunque uomo normale, sa che esistono infiniti enti corruttibili, che però ad un certo punto cessano di esistere non nel senso che cadono nel nulla, non finiscono affatto nel nulla, ma in quanto si dissolvono nei loro componenti. Se dico che Hegel prima del 1770 non esisteva e dopo ol 1830 non esistette più, dico una cosa del tutto ragionevole e comprensibile senza alcuna offesa al principio di non-contraddizione. Il cristiano con ogni uomo di sana ragione non dice affatto che c’è un tempo in cui un dato l’essere è e non è, ma che è impossibile che un dato essere sia e non sia nello stesso tempo, il che è tutto l’opposto.

È sorprendente come possa essere stato assunto ad insegnare all’Università Cattolica di Milano un personaggio con idee simili. La cosa tragica fu che lo stesso Agostino Gemelli fu sedotto dall’astuto parmenideo, come narra lo stesso Severino nella sua autobiografia[24]. Meraviglia allora come mai l’autorità ecclesiastica abbia aspettato tanto tempo a censurare Severino.

Severino chiama l’essenza, la scienza e l’autocoscienza originaria col titolo di «struttura originaria», che fu il titolo della sua tesi di laurea in filosofia. Da questo stesso modo di qualificare quei valori supremi ed originari, che in fin dei conti si riferiscono a Dio stesso, vediamo confermata la sua impostazione gnostica e razionalistica, come quella di colui che, in possesso del sapere assoluto, vuol spiegarci in maniera «incontrovertibile» la «struttura» di Dio, come se si trattasse di spiegare il funzionamento o la «struttura» di un computer o di un frigorifero.

Il ritorno di Severino a Parmenide non avviene senza dimenticare la dialettica hegeliana ovvero senza dimenticare Eraclito, come riferisce Fabro[25]. Severino, alla luce di Parmenide considera il divenire contradditorio, ma alla luce di Eraclito sa che esiste. Come mettere d’accordo queste due convinzioni?

Severino non si accorge che né l’una né l’altra è realistica, perché Parmenide per una preoccupazione indiscreta dell’identità, dimentica il divenire, mentre Eraclito per un attaccamento eccessivo ai sensi dimentica l’eterno. E invece egli si lascia confondere sia dal monismo parmenideo che dall’evoluzionismo eracliteo, come già era successo ad Hegel, con la differenza da Hegel che mentre questi non ha nessun problema nel considerare contradditorio, cioè dialettico, il reale, Severino ha una stima maggiore per l’identità e prova una maggiore ripugnanza per la contraddizione, ma ritiene comunque di doverla accettare. Qual è allora la sua conclusione circa il dovere del filosofo?

Severino, per aver errato nell’enunciazione del principio di non-contraddizione, dal quale egli esclude il divenire, che per lui è contradditorio, finisce per cadere in una contraddizione ancora peggiore, fondamentale, dalla quale non riesce e in fondo neppure non vuole liberarsi, e che consiste nel porre la contraddizione nello stesso essere da lui idolatrato. Dice egli infatti:

«Solo il filosofare autentico è un imporsi proprio della scienza» (speculativa) (epistème, da epìstamai, pongo sopra). Tutto il resto (scienza» [sperimentale], «fede, senso comune) ne è incapace». Questo è puro gnosticismo. Da qui consegue per Severino che

 «l’essere, tutto l’essere è; e quindi è immutabile. Ma l’essere, che è manifesto, è manifesto come diveniente. Dunque (e cioè proprio perché l’essere è manifesto come diveniente), questo essere manifesto è, in quanto immutabile (e immutabile dev’essere anch’esso, se è essere), altro da sé in quanto diveniente. O anche: dunque, questo essere manifesto, in quanto immutabile, si libra, in compagnia di tutto l’essere, al di sopra di sé in quanto diveniente. O anche: diviene la totalità dell’essere (e quindi anche l’essere manifesto, in quanto esso è essere) in quanto immutabile si raccoglie e si mantiene presso di sé, formando una dimensione diversa da quella dello stesso essere in quanto diveniente e cioè formando quel regno ospitale ove l’essere resta custodito per sempre e per sempre sottratto alla rapina del nulla»[26].

Severino, che accusa di contradditorietà la formulazione aristotelico-tomista del principio di non-contraddizione, è poi costretto egli stesso ad accettare la contraddizione dovendo ammettere che anche il divenire, che è contradditorio, appartiene all’essere.

Severino non sarebbe caduto in questa contraddizione, se avesse distinto con San Tommaso, potenza di essere ed atto di essere e per conseguenza avesse distinto essenza ed essere. Non si è reso conto che mentre il diveniente è composto di atto e potenza, dove l’essenza resta distinta dall’essere, non l’essere come tale, ma solo Dio è puro atto di essere e identità di essenza e di essere.[27]

Fine Quinta Parte

P. Giovanni Cavalcoli

Fontanellato, 16 ottobre 2025

La concezione idealistica della realtà appare evidente da domande che Husserl si pone. La risposta è chiara: le cose non hanno un senso in se stesse, ma è la coscienza che dà senso alle cose. È evidente come qui Husserl confonda l’aspetto produttivo della formazione (species expressa) del conoscere con quello recettivo informatore (species impressa), e non comprenda come, se la cosa è in noi in quanto pensata, non per questo non resta fuori in quanto pensabile.

La filosofia di Heidegger non si può qualificare come idealismo nella sua denominazione linguistica, perché ad Heidegger la tematica dell’idea interessa scarsamente. E tuttavia anche in Heidegger c’è la sostanza dell’idealismo in quanto l’idealismo comporta l’esprimersi del trascendentale kantiano nel categoriale empirico. Heidegger vuol dire che Kant mantiene il concetto tomista della verità gnoseologica come adaequatio ad rem, solo che inverte il rapporto stabilito da San Tommaso, il quale parla di adeguazione del soggetto (intellectus) all’oggetto (res).

Per Tommaso la verità risiede nell’intelletto prima che appartenere all’essere, perché essa presuppone l’atto dell’intelletto, mentre l’essere di per sé non dice vero (verum), ma solo essere. Questo è il puro realismo. Invece, ridurre l’essere al vero è la tipica operazione dell’idealismo, che ammette l’essere (oggetto) non in sé indipendente dal pensiero, ma solo in relazione all’intelletto (soggetto umano), l’essere in quanto pensato.

La novità dell’idealismo contemporaneo è che il suo riferimento non è più Hegel, per cui non è più storicista, ma è Parmenide, per cui è diventato eternalista. Rahner confonde il pensare a Dio col pensare all’essere.

Severino, che accusa di contradditorietà la formulazione aristotelico-tomista del principio di non-contraddizione, è poi costretto egli stesso ad accettare la contraddizione dovendo ammettere che anche il divenire, che è contradditorio, appartiene all’essere. Severino non sarebbe caduto in questa contraddizione, se avesse distinto con San Tommaso, potenza di essere ed atto di essere e per conseguenza avesse distinto essenza ed essere. Non si è reso conto che mentre il diveniente è composto di atto e potenza, dove l’essenza resta distinta dall’essere, non l’essere come tale, ma solo Dio è puro atto di essere e identità di essenza e di essere.

Immagine da Internet: La creazione, L 'elogio della geometria, Biblioteca Nazionale francese

[1] Una buona critica alla fenomenologia di Husserl ce la dà Maritain nell’opera già citata I gradi del sapere, alle pp.129-136.

[2] Idee per una fenomenologia pura e per una filosofia fenomenologica, Giulio Einaudi editore, Torino 1976, p.70.

[3] Ibid., p.71.

[4] La filosofia come scienza rigorosa, Editori Laterza, Bari 1994, p.21.

[5] Ibid., p.62.

[6] Ibid., p.103.

[7] Kant e l’idea della filosofia trascendentale, Mondadori Editore, Milano1990, pp.138-139.

[8] Heidegger tratta diffusamente del trascendentale kantiano nel suo libro Kant e il problema della metafisica, dove interpreta il trascendentale come precomprensione autocosciente preconcettuale (vorverständnis) dell’essere, per cui le categorie sarebbero bensì forme a priori dell’oggetto, ma precedute, come espressione concettuale, da quella precompressione originaria, che Heidegger considera come un’esperienza atematica dell’essere. Forse questa interpretazione di Heidegger potrebbe trovar un implicito aggancio nell’io penso kantiano, ma non so se Kant sarebbe d’accordo con questa interpretazione, che assomiglia a quella di Fichte, anche se la si può ricavare dal cogito cartesiano. 

[9] Critica della ragion pura, Edizioni Laterza, Bari 1965. P.21.

[10] Traduzione mia dal testo francese: Kant et le problème de la métaphysique, Éditions Gallimard, Paris 1953, p.73.

[11] Vedi Sull’essenza della verità, Editrice Morcelliana, Brescia 2021.

[12] Come vedremo più avanti, la distinzione barzaghiana fra filosofia originaria e filosofia derivata ha i suoi presupposti nel Kant interpretato da Heidegger. È vero che Barzaghi si rifà a Severino, ma anche questi presuppone Kant

[13] Vedi Bertrand Rioux, L’être et la vérité chez Heidegger et Saint Thomas d’Aquin, Montréal-Paris 1963.

[14] Vedi il mio libro Karl Rahner. Il Concilio tradito, Edizioni Fede&Cultura, Verona 2009, pp.28-41.

[15] Ibid., p.53-66.

[16] Uditori della parola. Edizioni Borla, Roma 1977.

[17] Corso fondamentale sulla fede, Edizioni Paoline, Roma 1978, pp.82-83.

[18] Una buona critica del pensiero di Severino è contenuta nel libro di Cornelio Fabro, L’alienazione dell’Occidente, Edizioni Quadrivium, Genova 1981.

[19] Il mio ricordo degli eterni, Autobiografia, Edizioni Rizzoli, Bergamo 2011, p.37.

[20]Ibid. p.70.

[21] Essenza del nichilismo, Adelphi Edizioni, Milano 1995, p.376.

[22] Alle pp.71-73.

[23] Ibid., p.67.

[24] Il mio ricordo degli eterni, op.cit.,p.75-76.

[25]L’alienazione dell’Occidente, op.cit., p.35.

[26] Ibid.

[27] Severino avrebbe fatto bene a leggere con attenzione il commento del teologo gesuita Guido Mattiussi alla Terza delle famose XXIV Tesi Tomiste approvate da San Pio X. Vedi l’edizione del 1947 della Pontificia Università Gregoriana di Roma. Questo è il testo della Tesi: In absoluta ipsius esse ratione unus subsistit Deus unus et simplicissimus; cetera cuncta, quae ipsum esse participant, naturam habent qua esse coarctatur; ac, tamquam distinctis realiter principiis, essentia et esse constant. Tommaso dimostra come nell’ente contingente o diveniente ovvero nella creatura la sua essenza sta al suo essere come la potenza sta all’atto. 

Nessun commento:

Posta un commento

I commenti che mancano del dovuto rispetto verso la Chiesa e le persone, saranno rimossi.